Giorgio Bettini
Mi pare di ricordarlo, la prima volta che l’ho visto, piegato in avanti come se fosse pancia a terra a lavorare al suo giornale, in via Emilia una stanzetta sopra la farmacia oggi di Massimo Ortalli, in quella redazione fatta da tre persone: lui, Gabrio Salieri e Liana Manzoni.
Quando io ero molto giovane, di lui tra di noi non si parlava bene: era uno della destra del PCI e quindi uno di quelli che si rispettava, ma che non stava simpatico, perché non aveva Ingrao come riferimento, anzi a lui piacevano Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano…
Con gli anni poi capii molte cose: ad esempio quell’antipatia atavica. Infatti mi raccontò che proprio l’incontro con Pietro Ingrao era stato uno dei motivi della sua collocazione interna al partito. Era a Milano, a metà degli anni ’50 e lavorava a l’Unità, nelle pagine culturali. Il suo caporedattore era un tipo piuttosto interessante, che scriveva dei libri. Si chiamava Italo Calvino. Il suo compagno di banco era uno che negli anni ’70 ed ’80 fu un giornalista di riferimento per molti di sinistra, quando conduceva il TG2: Emanuele Rocco. Anche se giovane, Bettini era molto apprezzato, tanto che ricoprì in qualche occasione il ruolo più importante che a l’Unità si potesse avere: il resocontista del segretario che allora era Palmiro Togliatti… Ma la sua ammirazione andava soprattutto al direttore di quel periodo Davide Lajolo, uno che aveva fatto da fascista l’ufficiale in Grecia e Albania durante la guerra (e in quel periodo non escludo abbia incrociato anche mio padre), ma che con l’8 settembre aveva lasciato la camicia nera ed era entrato nella Resistenza con il nome di battaglia di Ulisse. Giorgio Bettini aveva per Ulisse una venerazione. Il solo nominarlo gli cambiava lo sguardo e il suo apparente burbero carattere diventava d’incanto dolce e tenero.
Ulisse era il direttore de l’Unità che non aveva mandato giù l’invasione dell’Ungheria da parte dell’esercito russo e non ne fece mistero sul giornale del PCI. Ma non era aria e Togliatti si infuriò e mandò a normalizzare quel gruppo di intellettuali un po’ troppo liberali un dirigente emergente del partito: Pietro Ingrao, appunto, che riportò il giornale del Partito Comunista sulla “giusta” linea filosovietica… Era quel favoloso 1956.
Bettini non perdonò mai ad Ingrao quella scelta, quell’atteggiamento e quella censura e continuò a vedere per sempre ogni sua iniziativa politica di una doppiezza intollerabile, non come quella “doppiezza togliattiana” che veniva dipanata dal Migliore a fin di bene…
Era in prova a l’Unità, ma il nuovo scenario non lo convinceva e tornò a Bologna. Qui divenne dirigente dei giovani comunisti, si era già sposato con Novella: una donna notevole e soprattutto innamorata di questo ragazzo pieno di passioni e di visioni. Dal venerdì sera alla domenica nel loro piccolo appartamento bolognese messo a disposizione dal partit
o insieme a loro veniva a dormire una compagna da Roma. Era una donna importante: quella che oggi verrebbe chiamata la First Lady, anche se nel 1958 era ancora una prima donna “clandestina”. Nilde Iotti. Le direttive del partito prevedevano che i parlamentari dovessero nel fine settimana tornare nel collegio di elezione per mantenere i contatti con i proprio elettori (senza nessuna esclusione).
In una mattina del 1958 quando Giorgio aveva una riunione in federazione fu Nilde Iotti che accompagnò Novella all’ospedale perché si erano rotte le acque e di lì a poco nacque Susanna… Insomma nella piccola grande storia del grande Partito Comunista c’è spazio anche per piccole scene di grande umanità, dove tutti si davano una mano, perché i soldi erano pochi, ma tra compagni ci si aiutava e ci si voleva bene. A prescindere.
Giorgio a Bologna ha lasciato dei segni importanti. In primo luogo cominciò ad avere a che fare con la stampa comunista. La sua grande intuizione bolognese fu quella di fondare un giornale “Due Torri” che non era solo di propaganda, perché altrimenti avrebbe interessato solo i militanti e i quadri del partito, ma volle costruire un giornale in grado di interessare migliaia di bolognesi. E questa fu una grande e innovativa sfida che portò grandi giovamenti al rapporto tra partito e città.
Passavano gli anni e ad Imola con sempre maggiore forza si costituì un gruppo dirigente ambizioso e “autonomista” da Bologna e le relazioni umane che si erano costruite negli anni della Resistenza erano sempre molto forti. Enrico Gualandi era un giovane molto ambizioso e tra lui e Giorgio, da sempre, da quando il figlio del Moro era segretario del circolo della FGCI di Via Case di Dozza, c’era un legame di amicizia e complicità. Bettini, per parte sua, era stato uno dei più giovani partigiani di Imola. Nei primi anni ’60 con Cesare Baccarini (che era uno dei maggiori animatori del Circolo del Cinema), con l’amico di una vita Nazario Galassi si trovavano il sabato sera a parlare di politica. Gualandi era il leader del gruppo, ma subito dopo c’era Corso Bacchilega. Si passavano le ore, si discuteva di tutto: dall’urbanistica, ai temi dell’agricoltura; dalla strana idea di quel matto di Checco Costa che voleva fare un circuito ad Imola, alla più grande azienda della città: gli ospedali. Amedeo Ruggi era il dirigente comunista di un’azienda agricola che poi si sarebbe chiamata PEMPA (guidata poi da un grande imolese: Giancarlo Cani) e il sindaco Veraldo Vespignani era per tutti un forte riferimento politico e culturale. Insomma erano anni di grande fermento culturale e politico. I sabati sera erano una scossa di energia e di vitalità. Come si poteva fare per trasformare questa energia in patrimonio comune? Corso Bacchilega e Giorgio Bettini ebbero un’idea geniale: fare un giornale che ogni settimana potesse essere letto dai lavoratori dopo l’uscita dal lavoro, che in quei tempi era il sabato a mezzogiorno. Un foglio che potesse essere letto dalle famiglie davanti al fuoco. Per essere anche momento di aggregazione degli amici e si potessero trovare i fatti della loro città. I pochissimi ricchi avevano in casa un aggeggio nuovo che si chiamava televisione, ma i lavoratori, il popolo poteva avere un giornale nel quale potersi ritrovare, riconosce, confrontare e sapere che cosa succedeva in Comune e in giro per le strade. Nacque così “sabato sera”, il giornale della città.
Il direttore doveva essere Corso, più esperto e conosciuto in città, ma Giorgio era sempre attento.
Fece un viaggio negli Stati Uniti, andò in California in realtà dove l’agricoltura intensiva e i grandi campi di insalata lo colpirono. In fondo era il figlio del direttore della fabbrica del ghiaccio che ad Imola era importante nella conservazione della frutta e degli ortaggi: in po’ come ne La Valle dell’Eden con James Dean. Ma la cosa che gli interessava di più era il fenomeno della stampa locale. Ogni paesino della California aveva un giornale molto diffuso. Studìò bene come erano confezionati, come facevano i necrologi, le notizie sui nati e sui morti e su come si davano i risultati anche degli ultimi campionati di baseball tra ragazzini… Molte cose si potevano copiare e importare anche a Imola.
Troppo presto Corso Bacchilega si ammalò e “sabato sera” aveva bisogno di qualcuno che potesse dirigerlo. Non ci fu nessun dubbio: Giorgio era la persona più adatta. Dal 1964 al 1990 “sabato sera” fu la sua casa, la sua ossessione, il suo primo pensiero al mattino e l’ultimo la sera.
Il giornale all’inizio faceva fatica, ma con calma, con pazienza e con l’appoggio di Enrico Gualandi prima da segretario del partito e poi da sindaco, cominciò a crescere. Per molto tempo furono solo 1500 copie – nonostante il PCI avesse ben oltre 10 mila iscritti. Ma era chiaro perché: non era il giornale del partito. Parlava della città, addirittura c’erano i prezzi della frutta e degli ortaggi e non gli orari delle riunioni… figuriamoci che cosa poteva interessare ad un segretario di sezione… E invece fu per quello che “sabato sera” divenne un giornale simbolo dell’editoria locale italiana.
A metà degli anni 70 con l’operazione di inglobare l’esperienza di un giornale sportivo fondato da Walter Fuochi cominciò un’irresistibile crescita di vendite e di qualità del giornale. Erano in 4 a farlo, ma sembravano un esercito. Io non riesco neppure ad immaginare quanta fatica abbiano fatto, ma sono stati immensi. Certo c’erano dei collaboratori che li hanno aiutati (mi limito a nominare Paolo Dal Monte e Piero Petrini perché dimenticherei alcuni fondamentali e non voglio fare dei torti), ma con il crescere del numero di copie vendute, è cresciuta esponenzialmente la qualità del giornale.
Accanto a questo lavoro Giorgio continuava ad alimentare il fuoco che animava la sua passione politica: ha diretto l’ospedale di Imola, ha avuto un ruolo nella battaglia culturale sulla malattia mentale e nella stagione del superamento degli ospedali psichiatrici, si appassionava nella discussione sui piani regolatori, è stato consigliere comunale per molti mandati, poi consigliere in Provincia, ha diretto il partito a tutti i livelli, è stato instancabile animatore delle iniziative editoriali del partito anche a livello regionale, a cominciale da NTV (che poi non ha avuto la fortuna che lui sperava), poi TeleImola e chissà quante iniziative dimentico… Non stava mai fermo un attimo.
Come se non bastasse era un appassionato camminatore, un conoscitore minuzioso del territorio, ha cominciato a far parte del CAI e anche lì è diventato un animatore, un organizzatore e un dirigente locale, regionale e nazionale.
Alla fine del 1987, quando io lavoravo a Roma nella FGCI nazionale, mi chiamò e facemmo una conversazione. Mi chiese se avevo voglia di scrivere qualcosa per il “sabato sera”. A 27 anni non potevo più stare in un’organizzazione dove i più giovani mi davano del lei e dovevo cominciare a pensare a cosa fare nella vita. Non avevo mai pensato di saper scrivere. Mi raccontò di come all’inizio correggeva gli articoli a Gualandi che aveva la terza elementare e mi conquistò parlandomi della crescita del giornale. Di come Gramsci ritenesse che in una città la gerarchia fosse: il sindaco, il comandante dei carabinieri, il vescovo e il direttore del giornale. Mi sfidò. Mi mandò a seguire una manifestazione di Comunione e Liberazione con Don Giussani al Palazzo dello Sport. Scrissi e mi corresse poche parole. Il secondo articolo me lo gettò nel cestino e lo riscrissi tre volte… Un po’ alla volta mi ha accompagnato alla professione a volte dolcemente a volte con strappi e ruvide battute.
Bettini mi ha rivelato tutti i trucchi del mestiere e soprattutto mi ha insegnato a “sentire” i lettori. Mi ha imposto di andare nelle edicole alle 7 del mattino a guardare chi erano le persone che compravano il giornale. Mi ha fatto sentire l’odore del piombo che incontrava l’inchiostro nella rotativa, poi con il tempo l’odore della cera e delle strisciate di carta fotografica da incollare sulle gabbie delle pagine del giornale per la foto-composizione. Con lui sono andato alla Posta di via Tito Speri a vedere i postini partire in bicicletta con i cestini pieni di giornali. Mi ha fatto provare il piacere di vedere nascere ogni settimana una creatura nuova: frutto del lavoro di persone appassionate che credevano che il giornalismo locale fosse una missione da compiere per conto di una comunità.
Avere diretto “sabato sera” dopo di lui è stato un onore di cui non gli sarò mai abbastanza grato.
Voglio solo accennare alla forza, al coraggio e alla incredibile voglia di vivere che ha avuto in questi anni di battaglia contro la malattia. Ha messo il suo corpo a disposizione delle sperimentazioni, ma più delle medicine io credo sia stato il suo straordinario spirito di lottatore che l’ha fatto vivere molto più a lungo di quello che le statistiche gli dicessero. Si è battuto come un leone contro il cancro, come ha fatto per tutta la vita nelle battaglie in cui ha creduto.
E’ stato un grande divulgatore, un grande affabulatore. Un grande raccontatore di storie. Un comunista italiano di cui la città di Imola deve andare orgogliosa. Ha vissuto il suo tempo ed è stato protagonista della modernizzazione e del progresso del nostro territorio.
Poi è stato una persona che ha fatto il lavoro più bello del mondo nella città che ha amato con una passione profonda. Quello che so del giornalismo – e di molte cose della vita – lo devo a lui, che oltre ad un maestro è stato un secondo padre.
Mi dispiace molto avere scritto questo pezzo, ma lo chiudo con un grande abbraccio a Susanna e a Silvia che possono consolarsi, se è possibile, perché sanno che sono state fortunate ad avere un padre come lui.
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