Il lavoro del tintore (di Giancarlo Pelucchi)
Ott 23, 15
Giancarlo Pelucchi
Sindacalista
La nostra prima volta. Penso in FGCI a metà degli anni ’80. Ha sempre avuto la faccia, i modi e i toni di quello che “rompeva le palle”. Un bastian contrario con un grande senso di appartenenza e di lealtà. Uno d’altri tempi.
Il lavoro del tintore
Fes, Marocco, 1991
La foto. Sento ancora i rumori, i profumi delle spezie e quello degli acidi quando guardo le foto del giro nell’inferno e nel paradiso della città vecchia di Fes. E’ stata l’esperienza emotivamente più forte un viaggio mi ha dato. Entusiasmante.
Vasche per la concia delle pelli, giovani uomini che entrano o escono senza protezioni, senza scarpe. Vasche piene di acidi, coloranti. Che emanano un fetore insopportabile. Mi ricordano i racconti delle mie zie, operaie dei cappellifici di Monza, all’inizio del secolo scorso. Monza, la capitale dei cappelli di moda, una città ricca già allora. Ma ancora obbligata a convivere e fare i conti col lavoro manuale, con le operaie e gli operai. Anche perché confinata, anzi appiccicata, a Sesto San Giovanni: le donne nei cappellifici, gli uomini in Breda, in Falck, alle Marelli. Mio padre ha messo piede in Breda a 12 anni, dopo 4 anni di lavori come garzone del fornaio, e poi in piccole fabbriche di Sesto. E a me ha sempre raccontato di quell’incontro con la Breda come se fosse entrato all’inferno: l’altoforno, i laminatoi, le trafile, i magli e le presse. Fuoco, fumo, terra che trema… Acciaio incandescente in tutte le forme che occupa tutti gli spazi e che feriva, tagliava, uccideva.
Ma gli incubi che hanno popolato la sua infanzia, e anche la vita adulta, non era la fabbrica enorme e cattiva che pure tanti operai mutilava o uccideva: erano le vasche dove lavoravano le sue sorelle che aveva visto, settimo di una famiglia numerosa, accompagnandole da bambino nei cappellifici.
Persino da adulto sognava che io e mio fratello cadevamo nelle vasche della concia: lui provava a tirarci fuori, ma erano troppo profonde! Non sapeva nuotare: entrava e provava a tirarci fuori con le gambe ma gli sfuggivamo…
Mi è capitato di vederle quelle vasche nei paesi poveri che ho visitato ma anche in alcune periferie italiane, dove i cicli di vita di quegli impianti: investimenti, apertura, chiusura, sono sempre più rapidi. Scappando dalle ispezioni delle ASL, dell’INPS, dalle lotte sindacali per uno stipendio sicuro, condizioni di lavoro dignitose e sicure. E quando si spostano lasciano zone devastate e inquinate. Persone malate.
Storie del ‘900 ma anche dell’oggi, che spiegano, al di là della retorica, del bisogno di lavorare, della durezza materiale e delle costrizioni a cui milioni di persone sono costrette, della necessità di organizzare il lavoro dignitoso, sicuro. Anche oggi.
Ma gli incubi che hanno popolato la sua infanzia, e anche la vita adulta, non era la fabbrica enorme e cattiva che pure tanti operai mutilava o uccideva: erano le vasche dove lavoravano le sue sorelle che aveva visto, settimo di una famiglia numerosa, accompagnandole da bambino nei cappellifici.
Persino da adulto sognava che io e mio fratello cadevamo nelle vasche della concia: lui provava a tirarci fuori, ma erano troppo profonde! Non sapeva nuotare: entrava e provava a tirarci fuori con le gambe ma gli sfuggivamo…
Mi è capitato di vederle quelle vasche nei paesi poveri che ho visitato ma anche in alcune periferie italiane, dove i cicli di vita di quegli impianti: investimenti, apertura, chiusura, sono sempre più rapidi. Scappando dalle ispezioni delle ASL, dell’INPS, dalle lotte sindacali per uno stipendio sicuro, condizioni di lavoro dignitose e sicure. E quando si spostano lasciano zone devastate e inquinate. Persone malate.
Storie del ‘900 ma anche dell’oggi, che spiegano, al di là della retorica, del bisogno di lavorare, della durezza materiale e delle costrizioni a cui milioni di persone sono costrette, della necessità di organizzare il lavoro dignitoso, sicuro. Anche oggi.
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