Favelas di Sao Bernardo Do Campo (di Ernesto Olivero)
Nov 15, 15
Ernesto Oliverio
Arsenale della Pace
La nostra prima volta. Arrivò a Botteghe Oscure nel marzo del 1997 e sembrava un po’ Chance il giardiniere, ma convinse D’Alema (e anche me) a seguirlo… la cosa è durata molto a lungo.
Favelas di Sao Bernardo Do Campo
Brasile. San Paolo. 1995
La foto. Non era la parte più povera di questo angolo di mondo. Ma quell’esperienza di viaggio e di vita fu molto bella.
Tra i 18 milioni di abitanti di San Paolo ci sono anche quelli di questa e di tante altre favelas. Non hanno trovato posto nei grattacieli di venti, trenta piani che svettano nella megalopoli, sono stati in qualche modo spinti ai margini, ad abitare terreni incolti, colline disabitate.
Lì sono sorte le baracche di lamiera, senza acqua, luce, fognature a cielo aperto, poi le stanze di muratura, una addossata all’altra. Ognuno ha tirato su la sua stanza accanto agli altri, per usare meno materiale. Le finestre sono feritoie, le porte si aprono sui vicoli stretti, l’elettricità è un filo preso dalla casa del vicino, l’acqua arriva come un prolungamento della casa precedente e così via. È una città nella città per migliaia di persone che qui vivono alla giornata, lottano per la sopravvivenza, cercano con ogni espediente di procurarsi il cibo, le cure, la scuola dei figli.
Di peggio a San Paolo avevo visto solo i corticos, case alveare dove una stanza di cinque metri per cinque, divisa con pareti di fortuna, era casa per due famiglie, senza servizi, e dove lo stesso letto era usato a turno da tanti. Non dimenticherò mai quella casa di tre piani dove vivevano 600 persone, un’umanità che continua a interpellarmi.
Di fronte a immagini come questa, penso alle storie di tanta povera gente, ai bambini che nascono, crescono e spesso muoiono, ai loro padri e alle loro madri, agli anziani. Penso a migliaia di vite che si trascinano senza speranza, condannate a entrare in una banda, a spartirsi le piazze dello spaccio, il business di rapine, estorsioni e accattonaggio. Penso a loro, piango, ma non voglio provare pena. Piuttosto penso a quello che posso fare, al bene che posso costruire, alla speranza che può nascere quando in tanti decidiamo di metterci in gioco, di convertire idee, stili di vita, indifferenza. Non è una favola. Il mondo si può cambiare. Io l’ho visto.
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