Dopo l’assemblea (di Antonio Gioiellieri)
Nov 16, 15
Antonio Gioiellieri
Dirigente ANCI
La nostra prima volta. A Bologna, nel settembre del 1974. Avevamo fatto il corteo prima del comizio del segretario nazionale del PCI, Enrico Berlinguer, che chiudeva la Festa Nazionale de l’Unità. Era avvolto in una bandiera rossa e aveva un enorme chioma di capelli ricci.
Dopo l’assemblea
Praga. 1989
La foto. I centofiori della creatività erano tutti fioriti a Praga in quel capodanno delle rivoluzioni. Passammo da lì che gli studenti se n’erano appena andati. Ma sembrava che anche quelle sedie fossero eccitate.
Contrariamente a quanto si crede, i luoghi non sono contenitori
inerti di legami e sentimenti.
Sono costruzioni sociali e culturali
frutto di una produzione continua da parte dei loro abitanti
Ho collegato subito questa foto a questa frase posta in epigrafe all’interessantissimo studio dello storico Angelo Torre “Luoghi”. Lo studio esamina la “produzione di località” che è concetto ben più ampio, complesso e stratificato del concetto di spazio fisico o di piazza, ma è pur vero che la data e il luogo della foto, Praga 1989, rimandano ad uno spazio usato per la produzione di democrazia e, in ultima istanza, di luogo come costruzione sociale.
Osservando le sedie sparse e le carte lasciate dalle persone che hanno occupato quella sala per incontrarsi e discutere ho avuto la netta sensazione della distanza temporale e concettuale che intercorre tra l’agire politico di allora e l’agire politico odierno che non è immaginabile senza il web, senza i social network, senza i blog..
Eravamo ancora nell’epoca della politica dipanata nel tempo differito, così diversa dal contemporaneo tempo reale che pulsa con battute e repliche istantanee, con hastag, con gesti simbolici fulminanti “postati” in rete, con profluvi di commenti a commenti.
Da quelle sedie, invece, provengono gli echi di una collettività che distilla idee e azioni con le relazioni umane, gli echi del senso che aveva la preparazione delle riunioni e delle assemblee come tappe che scandivano il cammino delle persone e delle comunità.
Era l’epoca del filo, mentre oggi viviamo nella rete e con la rete.
In quell’epoca poteva accadere che i nomi degli spazi nei quali si condensavano svolte politiche importanti o nascite di movimenti politici connotavano definitivamente quelle svolte o quei movimenti. Ricordo, tra gli altri, due casi: i dorotei, la corrente maestra, e allora più numerosa, della Democrazia Cristiana, ebbero quel nome perché la loro riunione fondativa si tenne nel 1959 nel convento romano di Santa Dorotea; il sessantottesco movimento degli studenti della Statale (Università di Milano) si firmava così anche quando i collettivi studenteschi agivano come affiliati in altre città.
Vi saranno realtà politiche che saranno ricordate per gli hastag che hanno lanciato come #cambiaverso o #oratoccaanoi, allo stesso modo in cui sono passati alla storia i dorotei, gli studenti della Statale, le madri argentine di Plaza de Mayo o gli egiziani di piazza Tahrir? In fondo anche il movimento interno al PD guidato da Renzi ha avuto nella Stazione Leopolda di Firenze la sua culla, il suo spazio fondativo.
Io sono convinto che la politica e la democrazia non possano fare a meno degli spazi in funzione dei luoghi così come definiti da Torre. Solo nell’agorà il rito pubblico e lo spazio sociale ( del confronto, del conflitto, del dialogo, della mediazione ) si incontrano e si fondono, alimentando l’agire democratico, la produzione di cittadinanza e la costruzione di società.
La stessa “rivoluzione dolce” dell’ottantanove praghese, a cui la foto si riferisce, lo testimonia.
Non appaia, questa, una visione passatista.
I social network, i blog, le dirette in streaming sono una realtà molto positiva nella politica d’oggi. Sono strumenti preziosi e imbattibili per le amministrazioni pubbliche per comunicare in modo capillare e veloce con i propri cittadini, sono utilissimi per i cittadini che si vogliono autorganizzare in rete per risolvere un problema di comune interesse, possono essere straordinari per diffondere informazioni e far maturare opinioni condivise, rendono più trasparente l’agire politico e ne allargano l’accesso in modo potenzialmente infinito, possono documentare fatti che altrimenti potrebbero essere censurati, come nel caso del G8 di Genova.
Sono, dunque, una nuova strumentazione che concorre alla costruzione sociale dei luoghi. Ma possono anche, come osserva Evgeny Morozov, inibire alle società di poter scegliere altre vie di sviluppo da quelle ideologicamente ed economicamente dominanti. Se l’uomo è un animale sociale che ha bisogno delle relazioni con l’altro per esprimere le sue potenzialità di esistenza e di sviluppo, allora gli spazi, gli incontri e le assemblee di persone restano necessari perché mediazione, condivisione, maturazione e selezione delle idee vengono semplicemente cancellate dalla logica dei “mi piace” o del voto in rete con il metro delle cinque stelle.
Banale? Non tanto se si osserva la nevrotica produzione di polemiche pubbliche, per lo più sterili, innescate da battute infelici o da pensieri non meditati a sufficienza che tende a monopolizzare l’universo del discorso pubblico offuscando la possibilità di strutturare quelle letture critiche della realtà in grado di alimentare pratiche politiche e coscienze sociali capaci di rivitalizzare democrazie messe all’angolo dai processi di globalizzazione dell’economia e della finanza. O se si pensa alle comunità virtuali autoreferenziali che si formano e prosperano nella rete, monadi collettive impermeabili al confronto con “l’altro da sé” o alla potenza distruttiva dell’anonimato che diffama e infanga sotto la protezione della irresponsabilità dell’atto e della leggerezza della parola.
Certo con i social network la partecipazione politica ha allargato i contatti, ha affinato e differenziato la sua “accessibilità”, ha garantito la partecipazione diffusa all’assunzione di decisioni. Questo può fondare, di per sé, una nuova democrazia rappresentativa? O può assicurare una democrazia diretta priva di manipolazioni? E’ un fatto che la pratica di assemblee vere, non di raduni organizzati per certificare il consenso a idee e proposte già cotte e digerite, fatica a sopravvivere.
La foto, invece, documenta il vuoto lasciato da un’assemblea di quel tipo perché è un vuoto che vibra ancora di pienezza vitale.
Erano incontri nei quali il linguaggio verbale conviveva con il linguaggio del corpo, con gli odori, con i toni di voce, con l’ascolto dei silenzi e degli umori di un consesso e di una sala.
Non c’erano “slide” di “power point”: si ascoltava e ci si ascoltava, scattava la molla interiore per intervenire nel confronto, si organizzavano e riorganizzavano mentalmente gli argomenti per essere efficaci, si rischiava “l’esprit de l’escalier”, ci si metteva in gioco come persona in una comunità che dibatte, confligge, cerca punti di incontro o seleziona l’opinione prevalente.
La partecipazione era fisica, obbligava all’uso di uno spazio, portava a sentirsi fisicamente e sentimentalmente parte di uno snodo che alimentava la consapevolezza di essere comunità e società.
Una comunità di cui si percepivano i confini e la collocazione nel mondo.E snodi che, per loro natura, non permettevano, nonostante tutti gli sforzi organizzativi, di coinvolgere, o di immaginare di coinvolgere, la totalità dei cittadini o dei potenziali interessati. Si era agli antipodi della “sindrome di Pollicino” che si può vivere di fronte alla rete virtuale e potenzialmente infinita.
Come si era completamente estranei all’idea che qualcuno potesse fare affari trasmettendo quegli incontri, come invece oggi accade alle imprese che promuovono ed organizzano forum di partecipazione politica in rete, Beppe Grillo docet.
I congressi, le manifestazioni di piazza, ovvero i riti che fondano e strutturano il senso di appartenenza, erano i corollari o i coronamenti di questo modo di incontrarsi e di agire politicamente perché esprimevano l’autorevolezza, nel frattempo distillata e condensata, e contribuivano a determinare e a definire l’accaduto intriso di possibilità ( altra efficace locuzione di Torre ).
Osservando le sedie sparse e le carte lasciate dalle persone che hanno occupato quella sala per incontrarsi e discutere ho avuto la netta sensazione della distanza temporale e concettuale che intercorre tra l’agire politico di allora e l’agire politico odierno che non è immaginabile senza il web, senza i social network, senza i blog..
Eravamo ancora nell’epoca della politica dipanata nel tempo differito, così diversa dal contemporaneo tempo reale che pulsa con battute e repliche istantanee, con hastag, con gesti simbolici fulminanti “postati” in rete, con profluvi di commenti a commenti.
Da quelle sedie, invece, provengono gli echi di una collettività che distilla idee e azioni con le relazioni umane, gli echi del senso che aveva la preparazione delle riunioni e delle assemblee come tappe che scandivano il cammino delle persone e delle comunità.
Era l’epoca del filo, mentre oggi viviamo nella rete e con la rete.
In quell’epoca poteva accadere che i nomi degli spazi nei quali si condensavano svolte politiche importanti o nascite di movimenti politici connotavano definitivamente quelle svolte o quei movimenti. Ricordo, tra gli altri, due casi: i dorotei, la corrente maestra, e allora più numerosa, della Democrazia Cristiana, ebbero quel nome perché la loro riunione fondativa si tenne nel 1959 nel convento romano di Santa Dorotea; il sessantottesco movimento degli studenti della Statale (Università di Milano) si firmava così anche quando i collettivi studenteschi agivano come affiliati in altre città.
Vi saranno realtà politiche che saranno ricordate per gli hastag che hanno lanciato come #cambiaverso o #oratoccaanoi, allo stesso modo in cui sono passati alla storia i dorotei, gli studenti della Statale, le madri argentine di Plaza de Mayo o gli egiziani di piazza Tahrir? In fondo anche il movimento interno al PD guidato da Renzi ha avuto nella Stazione Leopolda di Firenze la sua culla, il suo spazio fondativo.
Io sono convinto che la politica e la democrazia non possano fare a meno degli spazi in funzione dei luoghi così come definiti da Torre. Solo nell’agorà il rito pubblico e lo spazio sociale ( del confronto, del conflitto, del dialogo, della mediazione ) si incontrano e si fondono, alimentando l’agire democratico, la produzione di cittadinanza e la costruzione di società.
La stessa “rivoluzione dolce” dell’ottantanove praghese, a cui la foto si riferisce, lo testimonia.
Non appaia, questa, una visione passatista.
I social network, i blog, le dirette in streaming sono una realtà molto positiva nella politica d’oggi. Sono strumenti preziosi e imbattibili per le amministrazioni pubbliche per comunicare in modo capillare e veloce con i propri cittadini, sono utilissimi per i cittadini che si vogliono autorganizzare in rete per risolvere un problema di comune interesse, possono essere straordinari per diffondere informazioni e far maturare opinioni condivise, rendono più trasparente l’agire politico e ne allargano l’accesso in modo potenzialmente infinito, possono documentare fatti che altrimenti potrebbero essere censurati, come nel caso del G8 di Genova.
Sono, dunque, una nuova strumentazione che concorre alla costruzione sociale dei luoghi. Ma possono anche, come osserva Evgeny Morozov, inibire alle società di poter scegliere altre vie di sviluppo da quelle ideologicamente ed economicamente dominanti. Se l’uomo è un animale sociale che ha bisogno delle relazioni con l’altro per esprimere le sue potenzialità di esistenza e di sviluppo, allora gli spazi, gli incontri e le assemblee di persone restano necessari perché mediazione, condivisione, maturazione e selezione delle idee vengono semplicemente cancellate dalla logica dei “mi piace” o del voto in rete con il metro delle cinque stelle.
Banale? Non tanto se si osserva la nevrotica produzione di polemiche pubbliche, per lo più sterili, innescate da battute infelici o da pensieri non meditati a sufficienza che tende a monopolizzare l’universo del discorso pubblico offuscando la possibilità di strutturare quelle letture critiche della realtà in grado di alimentare pratiche politiche e coscienze sociali capaci di rivitalizzare democrazie messe all’angolo dai processi di globalizzazione dell’economia e della finanza. O se si pensa alle comunità virtuali autoreferenziali che si formano e prosperano nella rete, monadi collettive impermeabili al confronto con “l’altro da sé” o alla potenza distruttiva dell’anonimato che diffama e infanga sotto la protezione della irresponsabilità dell’atto e della leggerezza della parola.
Certo con i social network la partecipazione politica ha allargato i contatti, ha affinato e differenziato la sua “accessibilità”, ha garantito la partecipazione diffusa all’assunzione di decisioni. Questo può fondare, di per sé, una nuova democrazia rappresentativa? O può assicurare una democrazia diretta priva di manipolazioni? E’ un fatto che la pratica di assemblee vere, non di raduni organizzati per certificare il consenso a idee e proposte già cotte e digerite, fatica a sopravvivere.
La foto, invece, documenta il vuoto lasciato da un’assemblea di quel tipo perché è un vuoto che vibra ancora di pienezza vitale.
Erano incontri nei quali il linguaggio verbale conviveva con il linguaggio del corpo, con gli odori, con i toni di voce, con l’ascolto dei silenzi e degli umori di un consesso e di una sala.
Non c’erano “slide” di “power point”: si ascoltava e ci si ascoltava, scattava la molla interiore per intervenire nel confronto, si organizzavano e riorganizzavano mentalmente gli argomenti per essere efficaci, si rischiava “l’esprit de l’escalier”, ci si metteva in gioco come persona in una comunità che dibatte, confligge, cerca punti di incontro o seleziona l’opinione prevalente.
La partecipazione era fisica, obbligava all’uso di uno spazio, portava a sentirsi fisicamente e sentimentalmente parte di uno snodo che alimentava la consapevolezza di essere comunità e società.
Una comunità di cui si percepivano i confini e la collocazione nel mondo.E snodi che, per loro natura, non permettevano, nonostante tutti gli sforzi organizzativi, di coinvolgere, o di immaginare di coinvolgere, la totalità dei cittadini o dei potenziali interessati. Si era agli antipodi della “sindrome di Pollicino” che si può vivere di fronte alla rete virtuale e potenzialmente infinita.
Come si era completamente estranei all’idea che qualcuno potesse fare affari trasmettendo quegli incontri, come invece oggi accade alle imprese che promuovono ed organizzano forum di partecipazione politica in rete, Beppe Grillo docet.
I congressi, le manifestazioni di piazza, ovvero i riti che fondano e strutturano il senso di appartenenza, erano i corollari o i coronamenti di questo modo di incontrarsi e di agire politicamente perché esprimevano l’autorevolezza, nel frattempo distillata e condensata, e contribuivano a determinare e a definire l’accaduto intriso di possibilità ( altra efficace locuzione di Torre ).
In quella “rivoluzione dolce” dell’ottantanove praghese c’era la ricerca dell’innovazione della rappresentatività democratica come combustibile della ricerca di nuove culture sociali, nuove pratiche comunitarie, nuove razionalità economiche. Ripensando i fondamenti delle proprie istituzioni nazionali e delle culture condivise che le giustificavano, i praghesi ridefinivano la loro idea di territorio e si proponevano di ricostruire un luogo.
Questa foto è un buona icona per ricordarci che siamo persone che costruendo legami costruiscono luoghi, realtà concrete che danno il senso alla nostra vita e alla nostra umanità. E per avvertirci che le tecnologie della comunicazione sono utili, ma non sono né “stupide”, né neutre.
Questa foto è un buona icona per ricordarci che siamo persone che costruendo legami costruiscono luoghi, realtà concrete che danno il senso alla nostra vita e alla nostra umanità. E per avvertirci che le tecnologie della comunicazione sono utili, ma non sono né “stupide”, né neutre.
Commenti recenti