Linguaggio, leucemia, Sinisa, chi non c’è più
Oggi ho letto un pezzo di Pierluigi Battista di grande intelligenza e di grande delicatezza a proposito delle reazioni che ha suscitato la conferenza stampa di Sinisa Mihajlovic e del suo annuncio di intraprendere una “battaglia” personale contro la leucemia. La cosa mi ha commosso e mi ha emozionato: uno dei miei migliori amici, un fratello, se n’è andato 16 anni fa per quella stessa maledetta malattia. Sembrava esserne uscito, ma poi lo abbiamo perduto e ancora oggi non sappiamo trovare un conforto. Il modo di parlare di queste cose non può essere solo verbale: ha a che fare con i comportamenti e con le conseguenze (anche bellissime) che esperienze terribili generano nelle persone.
Molti amici – scrive Battista – hanno dato con slancio generoso la loro solidarietà a Sinisa Mihajlovic non hanno avuto il tempo di seguire un servizio della Bbc. Si dice, in quel servizio, che ci sono delle parole che feriscono, nel gergo e nella retorica per indicare chi ha un tumore: guerriero, combattente, eroe. Ma è proprio quello che hanno detto a Mihajlovic: guerriero, combattente, eroe.
E chi muore, allora, forse non è stato eroico? Ha la colpa di aver ceduto alla malattia? È stato un guerriero maldestro? È un perdente?
Anche io ho pensato per prima cosa alla forza di questo giocatore, alla grinta, alla capacità di convincere i suoi giocatori. Ma Battista ha ragione a richiamare l’attenzione su questo, nonostante dietro a questo atteggiamento collettivo ci sia “un’esortazione sincera”, e la “metafora usata con generosità, un incoraggiamento”. Perchè è vero: “non è che chi muore è stato meno eroico di chi è guarito. Non è una volontà di ferro che sconfigge il male, non è con uno spirito pugnace che le cellule cancerose arretrano. Non è il malato che può guarire perché è bravo a combattere, ma può salvarsi solo se le armi mediche risultano efficaci. Puoi avere la volontà d’acciaio e soccombere: non sei tu che determini l’esito della lotta. Se perdi, non solo muori ma ti devi dare la colpa di non esserti dotato di una buona tattica bellica? Morire è come la sconfitta sui campi di Waterloo?”
E’ verissimo. Le persone che abbiamo amato e sono morte non hanno “perso una partita”.
Puoi affrontare la malattia con determinazione muscolare, facendo sfoggio di «forzutismo», per usare una definizione di Elena Loewenthal, ma il nemico è stato più bravo di te. Punto. Oppure puoi guarire dopo aver vissuto la malattia abbandonandoti alla disperazione: è successo, succede. Pensare che si possa guarire o morire a seconda dell’atteggiamento con cui ci si cura è l’ultimo rifugio della presunzione di onnipotenza psicologica. Magia, non scienza. Lo aveva scritto Susan Sontag: il linguaggio con cui si affronta il cancro rischia di essere soffocato sotto un eccesso di metafore («Malattia della metafora» è appunto il titolo del saggio di Susan Sontag).
Il linguaggio bellico – sostiene Battista – ha sgominato tutti gli altri nella rappresentazione metaforica del cancro: le cellule cancerose «invadono» oppure «colonizzano», bisogna rafforzare le «difese», fare in modo che i pazienti siano «bombardati» con i raggi per contrastare «l’invasione tumorale». La nostra Oriana Fallaci ingaggiò una battaglia senza esclusione di colpi con l’«alieno» che le succhiava la vita: la sfida, il duello, la pugna, eppure alla fine non ce l’ha fatta. Il nostro Tiziano Terzani abbracciò l’atteggiamento opposto: l’accettazione saggia del destino, la vita dello spirito, il «Grande Tutto», eppure alla fine anche lui ha lasciato il mondo terrestre dei vivi.
La domanda è giusta: ragionare su questo “È fatalismo?”
Anche la mia risposta è NO. “La sorte della malattia non è emanazione di una volontà soggettiva, ma dipende dall’efficacia delle cure, che per fortuna oggi, per molte varietà di tumore, risulta maggiore e ha più successo di prima.
Esiste una retorica del cancro secondo la quale vince chi lotta di più, chi non si arrende, chi ha più carattere. Oltre che falso, è offensivo per chi soccombe e muore. Non si arrende: muore. E chi vive non vince: guarisce.
Maurizio Crosetti
Per rispetto ai malati – scrive ancora Battista – bisogna riportare il cancro al suo grado zero, non sovraccaricarlo di metafore militari che umiliano i pazienti, trasferiscono a chi si cura la responsabilità di un esito terapeutico che in realtà non dipende da lui, dalla sua volontà, dal suo carattere, dal suo armamentario bellico.
Gli oncologi più avvertiti smentiscono una credenza molto diffusa e hanno stabilito che non c’è alcuna correlazione che abbia il valore di un’evidenza scientifica tra l’atteggiamento del malato e il decorso della malattia. Diverso dire che l’atteggiamento positivo del malato rende più agevole il lavoro del medico, ma un «guerriero» non ha nessuna chance in più di guarire di quante ne abbia un paziente più docile e introverso.
Christopher Hitchens, che della sua malattia ha fornito un resoconto commovente e puntuale fino alla fine, ha scritto che nel «linguaggio di Tumorville», definizione geniale, la metafora militare rischia di avere un’influenza negativa sui pazienti costretti a vivere con un iniquo senso di colpa la progressione del tumore che avanza inesorabile e sbaraglia, è il caso di dire, ogni trincea terapeutica: purtroppo è così, è esattamente così.
Il finale di Battista è molto bello: “Ecco perché ci sono parole che, pronunciate con le migliori e più nobili intenzioni, possono ottenere un effetto boomerang. Ha ragione la Bbc: ci sono parole con cui non bisogna colpevolizzare i malati. Ce ne sono altre: di solidarietà, di cura, di affetto, di vicinanza, di amore. Non di guerra”.
Battista chiude con: un abbraccio grande a Sinisa. Mi unisco a questo abbraccio a una persona che non conosco, ma che mi ha fatto emozionare su un campo di calcio.
Ma c’è ancora una cosa che rende me e i miei amici orgogliosi di avere incontrato una persona che è morta di leucemia nel 2003: venerdì suo figlio si laurea in medicina, con una tesi in ematologia. Ci arriva con ottimi voti e perfettamente in linea con i tempi richiesti dalla facoltà. Le battaglie, se così proprio le vogliamo chiamare, continuano con i ricordi, con la coerenza, con il rigore… con l’esempio anche di chi non ha avuto la sorte di guarire. Persone che ci hanno insegnato tanto: anche cose che non avremmo voluto mai conoscere.
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