La conoscenza è l’abisso
Der Tod in Venedig, La morte a Venezia, è un romanzo breve di Thomas Mann pubblicato nel 1912. Avevo visto e amato il film di Luchino Visconti qualche anno dopo la sua uscita (nel 1971 non credo che avrei molto apprezzato il ritmo, a 11 anni…). Avevo letto il libro, ma nella notte dei tempi e non ricordavo nulla… Invece l’ho ascoltato in questi giorni e l’ho (ri) trovato meraviglioso.
Il protagonista del romanzo di Thomas Mann è uno scrittore importante, anziano, elegante. Gustav von Aschenbach. Ormai tormentato dal male che lo ha colpito, ma non ancora consapevole, passa una notte molto agitata nell’hotel al Lido di Venezia e riflette sulla sua esistenza e sulla ventura dell’incontro, in quell’estate malinconica con un giovane polacco, bellissimo:
Eccolo lì il maestro, l’artista dignitoso, l’autore del Miserabile, che in una forma di esemplare purezza aveva condannato la vita zingaresca e il torbido dei bassifondi, abiurato ogni simpatia per gli abissi, riprovato il riprovevole, colui che era salito così in alto, che, superato il proprio sapere e liberatosi dall’ironia, si era abituato a considerarsi impegnato dalla fiducia che ispirava alle masse — Gustav Von Aschenbach la cui gloria era ufficiale, il cui nome era stato nobilitato e il cui stile era proposto a modello nelle scuole, eccolo lì seduto a terra, con le palpebre chiuse; solo di tanto in tanto saetta uno sguardo obliquo, ironico e perplesso, e subito lo nasconde; e le sue labbra flosce ravvivate dal rossetto articolano parole staccate dei discorso che il suo cervello intorpidito compone con la strana logica del sogno.
Aschenbach si sente Socrate, si trasforma – nel suo delirio – in Socrate, perchè si impone di essere saggio, e affronta con Fedro una conversazione sull’anima, la follia, l’ispirazione divina e l’arte. Ma lo fa anche per qualità di corteggiatore che Socrate aveva. E il suo Fedro, ovviamente, è Tadzio.
Giacché la bellezza, poni ben mente, Fedro, la bellezza soltanto è divina e visibile a un tempo, e perciò essa è la via del sensibile, piccolo Fedro, è la via che conduce l’artista allo spirito. Ma tu, o diletto, credi che giungerà alla saggezza e alla vera dignità virile colui che s’incammina verso lo spirito per la strada dei sensi? O credi piuttosto (ti lascio libero di decidere) che questa sia una strada irta di deliziosi pericoli, che sia davvero una strada tortuosa e peccaminosa che conduce necessariamente all’errore? Giacché devi sapere che noi poeti non possiamo percorrere il cammino della bellezza senza che Eros ci accompagni e diventi la nostra guida; anche se a modo nostro siamo eroi e onesti combattenti, siamo tuttavia come le donne, poiché la passione è il nostro innalzamento, e amore deve rimanere il nostro anelito… questa è la nostra gioia e la nostra vergogna. Lo vedi adesso, che noi poeti non possiamo essere saggi né dignitosi? che dobbiamo necessariamente errare, necessariamente essere dissoluti, avventurieri del sentimento? La nostra maestria dello stile è menzogna e ciurmeria; la nostra gloria, l’onorifica riputazione, è farsa, la fiducia che il pubblico ha in noi è estremamente ridicola, l’educazione del popolo e della gioventù per mezzo dell’arte è un’impresa arrischiata che bisogna proibire. Infatti che educatore può mai essere colui che per istinto incorreggibile e naturale è attratto verso l’abisso? Bene vorremmo rinnegare l’abisso e conquistare la dignità, ma per quanto ci sforziamo, l’abisso ci attira. Così noi rinunziamo alla conoscenza che dissolve, perché la conoscenza, Fedro, non ha dignità né rigore, la conoscenza sa, comprende, perdona, è senza carattere e senza forma; ha simpatia per l’abisso, anzi è l’abisso. Noi dunque la respingiamo risolutamente e quindi la nostra aspirazione resta unicamente la bellezza, vale a dire la semplicità, la grandezza e la nuova severità, la seconda spontaneità e la forma. Ma spontaneità e forma, o Fedro, portano all’ebbrezza e al desiderio, possono trascinare un animo nobile a orrendi sacrilegi del sentimento che la sua stessa bella severità dichiara infami; conducono all’abisso, esse pure all’abisso. E vi conducono proprio noi poeti, perché noi non siamo capaci di elevatezza, ma soltanto di dissolutezza. Ed ora io vado, Fedro, tu resta qui; e quando non mi vedrai più, allora avviati anche tu.
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