Non è poi così lontana Samarcanda
Il viaggio in Uzbekistan, toccando Kirghizistan, Tagikistan e Kazakistan è un’esperienza estasiante. Un sogno che proietta in una dimensione senza tempo e straniante fatto dalla realtà islamica, dai segni dell’utopia rivoluzionaria, da quelli della tradizione nomade ed elementi di modernità. Segni, opere, architettura, arte a volte indipendenti tra loro, a volte vicini, altre volte fonte di stridori. Samarcanda arriva “non poi così lontana”, folgorante, affascinante, colorata, bellissima, finta ma credibile. Una città talmente bella che sorprende per la sua potenza. “Presente inattuale o passato-che-non-passa? Trionfale fallimento o progetto da ridefinire? Utopia o realtà? Sogno o incubo?” come tra affermazioni e domande scrive Franco Cardini in Samarcanda: Un sogno color turchese. Il suo libro, molto bello, che per scrivere questo post ho saccheggiato e ne ho estratto le storie (e le leggende) che racconto.
OH OH CAVALLO, OH OH
Samarcanda è prima di tutto il ricordo di un tormentone del 1977 (maledetto e benedetto 1977) di un Roberto Vecchioni che con quella canzone divenne famoso. Il testo deriva da una leggenda uzbeka. (La parola uzbek significa «padrone di se stesso»). Quella di un valoroso soldato che, durante una festa per il ritorno della pace dopo una lunga guerra, scorge nascosta in mezzo alla folla gioiosa, la Morte, che lo fissava con volto ostile. Il soldato – impaurito – cercò rifugio dal suo re, che lo accolse e gli regalò un cavallo di prodigiosa velocità. Il soldato non perdette tempo e sull’animale cavalcherà tutta la notte per raggiungere “la più lontana, la più favolosa delle città, Samarcanda”. Ma, arrivato là, egli scoprirà che al proprio destino non si sfugge: la Signora in Nero è lì ad attenderlo, a modo suo pietosa e accogliente…
Zhang Qian aveva visitato per conto di un imperatore della dinastia Han l’Asia centrale, fornito notizie sulla «Via della Seta» e condotto nel suo paese i celebri «cavalli del Ferghana», i «cavalli celesti» che «sudavano sangue»: una caratteristica che dipendeva da un parassita e che era caratterizzata da efflorescenze sanguigne sul loro manto che venivano attribuite a un’origine divina.
Il cavallo di Marco Aurelio in Campidoglio apparteneva a quella superba, nobilissima razza equina. Voglio pensare che il “cavallo oh oh, cavallo oh oh” della leggenda fosse della stessa razza…
VICINO A DOVE ABITA LA MORTE
In questa città nella quale i monumenti più belli e insigni sono in realtà dei sepolcri o degli edifici votivi in memoria di morti – ma non è lo stesso un po’ per quasi tutti i monumenti del mondo, dalle piramidi egizie al Taj Mahal, dai teocalli aztechi alla basilica di San Pietro? – la Morte abita in effetti più che altrove.
Si diceva, e forse tra i più anziani lo si ripete ancora, che essa abbia la sua tana «in una grotta poco lontana, fra le rocce del deserto del Kizilkum” (nome che deriva dall’uzbeco ”Qizilqum, “sabbia rossa”). La roccia, il deserto, l’essere oasi – miraggio – sono elementi che nutrono il sogno turchese.
Samar significa in sanscrito «roccia» e, in sogdiano, la parola asmara indica “la roccia”.
Lo Zerafshan (è il fiume del Tagikistan e dell’Uzbekistan: il suo nome è di origine persiana e significa «apportatore di oro»), nasce dal Pamir, è il responsabile della formazione dell’oasi nella quale è stata fondata Afrasiab (il nome antico di Samarcanda), nata a sud del suo corso; il suo nome significa, in persiano, «portatore d’oro», a causa appunto delle sue sabbie aurifere.
Oggi, nonostante tutto quanto sia cambiato in questi trent’anni possiamo ancora dire che Samarcanda resta il centro politico e «regale» dell’Islam e, resta indiscutibile che la Mecca ne sia il cuore della fede, discorso diverso per Baghdad per la quale dobbiamo parlarne usando il passato remoto: ne fu il suo centro economico, mercantile e produttivo.
L’Islam non è – come spesso invece ancora si dice – una «religione figlia del deserto»: esso è nato nelle città carovaniere. Da queste città, dunque, arrivano anche i «Libri della Scala» che vengono tradotti in castigliano e poi in latino attorno la 1200 a Toledo, e sono considerati una delle fonti ispiratrici della Divina Commedia dantesca. Essi narravano la scalata al cielo che avrebbe portato il profeta Maometto, su su fino all’Ottavo Cielo, fino a giungere al cospetto ravvicinato di Allah. Questo evento è anche descritto rapidamente nel Corano come il “viaggio notturno” di Maometto dal “Tempio sacro” della Mecca verso il “Tempio ultimo”, identificato in Gerusalemme, e con la sua salita al Settimo Cielo, vicinissimo al “Suo Volto”.
LA GRADINATA DEL PARADISO
A proposito di scale, c’è una storia/leggenda notevole. Qusam ibn al-Abbas, uno dei nipoti del profeta Maometto partì nel 676 alla volta della Sogdiana per predicare la fede agli abitanti di quelle terre ch’erano, come dice Ibn Battuta, «idolatri e miscredenti».
Giunto ad Afrasiab (Samarcanda), gli adoratori del fuoco lo presero «a sassate, lo catturarono e lo decapitarono». La scena si svolse subito fuori della cinta muraria della città di allora: a est del luogo nel quale ora si apre la porta meridionale dell’antica cinta muraria, presso l’acquedotto. Qusam è quindi uno shahid, un «martire della fede» (un po’ come era stato per i cristiani Giovanni Battista fatto decapitare dal re Erode IV Antipa). Ma Qusam, secondo i musulmani, dopo l’esecuzione fece qualcosa che il Battista non aveva fatto. Si alzò da terra dopo la decapitazione, raccolse la sua testa e, stringendosela al petto, cominciò a salire la collina ai piedi della quale era avvenuta l’esecuzione. Lo shahid, giunto sulla cima della collina sovrastante il luogo della sua esecuzione, scese in un pozzo profondo: ed è ancora là, in preghiera, la testa tra le mani, che attende la Resurrezione della Carne.
Scalinata
La scena raccontata si sarebbe svolta dove oggi c’è un complesso di tre gruppi di strutture: collegate da quattro arcate di passaggi a cupola chiamati localmente chartak.
Il corpo principale iniziale – del complesso Kusam-ibn-Abbas – è composto di diversi edifici. Il più antico di essi, è il mausoleo Kusam-ibn-Abbas e la moschea (XVI secolo). Il gruppo superiore di edifici si compone di tre mausolei l’uno fronte all’altro. Il primo è il mausoleo Khodja-Akhmad (1340) il secondo è il Mausoleo del 1361.
Il gruppo centrale è costituito dai diversi mausolei dei parenti di Timur, dell’aristocrazia militare e del clero. Sul lato ovest c’è Mausoleo di Shadi Mulk Aga, la nipote di Tamerlano. Di fronte si trova il Mausoleo di Shirin Bika Aga, la sorella di Timur.
Accanto c’è il cosiddetto Ottaedro, una cripta di forma insolita del XV secolo.
Vicino alla scala c’è un mausoleo a doppia cupola dedicato a Kazi Zade Rumi, che è stato scienziato e astronomo..
Ulugh Beg – nipote prediletto e successore di Tamerlano – avrebbe fatto erigere questo agglomerato nel 1435. Nelle foto sotto vedete come presenta, oggi, l’ingresso all’erta «scalinata del Paradiso», i gradini della quale – secondo una tradizione – sono di numero diverso a seconda che la si salga o la si scenda.
GENGIS KHAN
Genghiz Khan (che si è chiamato Temüjin per diversi anni della sua vita) nacque nel 1162. Dopo aver unificato le tribù mongole, fondando l’Impero mongolo, le condusse alla conquista della maggior parte dell’Asia centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio Oriente e di parte dell’Europa orientale, dando vita al più vasto impero della storia umana.
Ai suoi tempi la città di Samarcanda costituiva il primo luogo di sicuro riposo e di sosta per le merci. Una vera e propria «città carovaniera», com’è provato dal suo assetto urbanistico: il bazar-asilo-deposito era al centro dell’area intramuraria, nella «piazza della Sabbia dei Mercanti», il Reghistan, addossato a un rilievo sul quale doveva già ergersi una qualche fortificazione.
Con Temüjin quel mondo si trovò di fronte al risveglio dei mongoli: pastori nomadi che abitavano l’odierna Mongolia orientale, a sudovest della Manciuria. Gli arabi li chiamavano tatar, termine da cui i latini derivarono nel Duecento la parola tartari che indicava chi proveniva dal luogo più terribile: il Tartaro, quasi sinonimo di inferno.
Le varie tribù mongole “si muovevano continuamente alla ricerca di pascoli, ora espandendosi ora ritraendosi su se stesse, così Gengis Khan dette al suo «impero» il carattere dell’organizzazione politico-militare mobile, flessibile, senza trascurare però di imprimergli una forma sempre più gerarchizzata”.
Come tutto il suo popolo “Gengis Khan aveva una visione magica più che propriamente religiosa del mondo; e nei vari culti cercava gli elementi, le «forze», che avrebbero, volta per volta, potuto favorirlo. Ciò spiega perché alla sua corte, oltre ai saggi taoisti, vi fossero sacerdoti e si recitassero liturgie un po’ di tutti i culti religiosi”.
Ma il vero genio innovativo di Gengis Khan fu quello militare, che si esprimeva soprattutto nella tattica: “le formidabili armate mongole di arcieri a cavallo caricavano nel più completo silenzio, guidate da segnali come bandiere di vario colore, compiendo le loro imprese”. Dove non arrivava con le armi, egli giungeva con la politica e la diplomazia: i suoi nemici sapevano che sottomettersi significava trovare in lui un signore magnanimo e un protettore potente e generoso, mentre resistere equivaleva a venire sterminati.
Quando scomparve, nel 1227, il suo impero andava dalla Siberia al Kashmir e al Tibet, dal Caspio al mar del Giappone.”I popoli che egli aveva saputo riunire erano in realtà molto diversi per le numerose influenze culturali subite: allo sciamanesimo originario accompagnavano elementi taoisti, buddhisti, musulmani e cristiani di confessione nestoriana”.
Tomba
Ma dove riposano le spoglie di Gengis Khan?
Per desiderio dello stesso sovrano, non è dato saperlo, e i mongoli rispettano queste volontà. La tradizione vuole che alla morte dell’imperatore, nel 1227, un’armata in lutto riportò il suo corpo in Mongolia, uccidendo qualunque essere vivente si trovasse sulla strada. Mille cavalli calpestarono la sua tomba, per cancellare ogni traccia di sepoltura. Gli architetti e le maestranze che avevo lavorato al sepolcro furono uccisi. La stessa sorte toccò ai mille cavalieri tornati in patria. Negli 800 anni successivi, nessuno ha mai trovato segni del sepolcro; L’interesse è per lo più internazionale tanto che sono stati utilizzati anche i satelliti per trovare indizi. I mongoli, per parte loro, si oppongono a ogni spedizione archeologica che tenti di svelare il mistero. Non è tanto una questione di superstizione. Piuttosto, trovarne le spoglie equivarrebbe a violare il suo ultimo desiderio.
Una importante spedizione archeologica organizzata per trovare la tomba di Gengis Khan – un progetto mongolo-nipponico iniziato nel 1990 e concentrato nella provincia di Khentii, non lontano da Ulan Bator – fu interrotta dalle proteste della popolazione locale.
Su un punto Gengis Khan non transigeva: l’unica legge, detta yassa, a garanzia di un unico sovrano che avrebbe dovuto governare tutto l’universo in analogia con il principio del monoteismo uranico che costituiva la sostanza della religiosità mongolica («un sole in cielo, un signore supremo sulla terra»).
Teschio.
La manipolazione del cranio del nemico vinto era fin dalla preistoria tipica della tradizione turcotartara, che l’aveva trasmessa tanto alle culture amerinde nordamericane (l’origine siberiana delle quali è certa) quanto a quelle indoeuropee soprattutto nordiraniche ma anche celtiche e germaniche le quali, fra Antichità e Medioevo, furono in stretto contatto con esso in quelle che sono state definite le «culture delle steppe». La famosa coppa del longobardo Alboino, ricavata dalla calotta cranica del suo avversario re dei gepidi, appartiene a quest’ambito culturale.
TAMERLANO
Tīmūr Barlas, o semplicemente Timur, italianizzato Tamerlano, nacque nel 1336 e morì nel 1405. E’ stato un condottiero turco-mongolo che conquistò larga parte dell’Asia centrale e occidentale e fondò l’Impero timuride. Da lui discesero, tra gli altri, l’astronomo Uluğ Bek e Babur (“il Leone”), fondatore della dinastia Mogul in India.
“Tamerlano era grande e robusto. La sua testa era massiccia, la fronte alta, la pelle bianca e sana. Era prestante: aveva larghe spalle, gambe lunghe, mani forti. Era storpio e zoppicava dal piede destro. Portava una lunga barba. Il suo sguardo aveva una luce capace di turbare e la sua voce era forte e penetrante. Pur essendo quasi ottantenne, godeva ancora di tutte le facoltà fisiche intatte. Il suo spirito era restato fermo, il corpo vigoroso, la volontà indomita”.
Timur decise d’insediarsi anche in una vera e propria capitale: e, dopo aver scartato la natia Kesh, scelse appunto Samarcanda, una città famosa anche perché, secondo la leggenda, vi aveva soggiornato Alessandro.
Turandot
Timur (è il re padre del principe Calaf nella Turandot: il libretto della quale s’ispirava all’omonima «leggenda tragicomica», così l’aveva chiamata il suo autore Carlo Gozzi, rappresentata per la prima volta a Venezia nel 1761) «Va’ lontano con le stelle – verso imperi favolosi», raccomandano i tre saggi consiglieri imperiali al principe Calaf che si è lasciato irretire dall’incanto dell’algida principessa Turandot di Puccini.
La trama: Siamo a Pechino, dove un editto annuncia che la principessa Turandot, figlia dell’imperatore Altoum, sposerà il primo uomo di sangue reale che riuscirà a risolvere tre indovinelli da lei proposti. Chi sbaglia verrà decapitato. Tutti quelli che ci hanno provato sono stati uccisi e le loro teste infilzate su pali. La folla assiste in delirio: vorrebbe altro sangue, ma si impietosisce quando è il Principe di Persia ad essere condannato a morte e ne chiede la grazia alla crudele principessa. Mescolato alla folla vi è anche Calaf, figlio del vecchio re tartaro Timur, insieme alla giovane schiava Liù. Calaf vorrebbe incontrare Turandot per maledirla, ma quando la vede rimane incantato dalla sua bellezza e decide di conquistarla. Mentre Liù e i ministri dell’imperatore, Ping, Pong e Pang, cercano di dissuaderlo, Calaf corre a suonare il gong che indica che un nuovo sfidante tenterà di risolvere gli enigmi.
Pass un po’ di tempo. Appare Turandot, bellissima e vestita magnificamente, che propone i 3 indovinelli. Calaf riesce a risolverli, ma la principessa non vuole diventare sua sposa e chiede al padre di impedirlo. L’imperatore non intende rimangiarsi la parola ed è Calaf a sollevarli dall’impiccio proponendo un patto: se la principessa riuscirà a scoprire il suo nome prima dell’alba, ella sarà libera dal suo impegno e lui verrà condannato a morte.
Turandot ordina che nessuno vada a dormire (“Nessun dorma”) prima di avere scoperto il nome dello straniero. Quando Timur e Liù vengono catturati, Turandot viene chiamata per assistere alla rivelazione del nome. La schiava viene torturata, ma non parla e Turandot le chiede cosa le dia la forza di resistere a tanto dolore. Liù spiega che è l’amore a sostenerla; poi, per paura di rivelare il nome di Calaf, si uccide con un pugnale. Timur piange disperato e la folla porta via il corpo della giovane schiava.
Rimasti soli, Turandot e Calaf si confessano il reciproco amore e si baciano. All’alba Calaf rivela il suo nome, affidando così la propria vita alla principessa.Nell’ultima scena i due giovani compaiono davanti all’Imperatore e Turandot dichiara di aver saputo finalmente il nome dello straniero: egli si chiama Amore..
Temur di Gengis Khan ha la straordinaria capacità militare e le qualità diplomatiche, ma quando deve usare la crudeltà non si tira indiretto. Nel 1383 dopo avere soffocato un’insurrezione nel Seistan, a Isfizar, diede ordine che nella creta per fabbricare i mattoni necessari a erigere alcuni minareti fosse mischiata ai corpi di circa duemila prigionieri gettati ancor vivi nell’impasto.
“Ma fu soprattutto a Zarengi, la capitale della regione seistaniana posta sulla riva destra del fiume Hilmand, che la crudeltà dell’emiro e del suo squilibrato figlio si mostrò più terribile. La città aveva resistito con la forza della disperazione: la popolazione fu sterminata per intero, dai vegliardi alle donne ai lattanti; l’antica diga sul fiume fu distrutta e con essa venne rovinato uno splendido sistema d’irrigazione di quell’area che da allora non si sarebbe più ripresa e sarebbe stata inghiottita dal deserto. La città non venne neppure saccheggiata: ma si calcola che, su un numero di abitanti che arrivava forse al mezzo milione, ne fossero decapitati circa 100 mila. Attorno alla città i conquistatori costruirono decine di «minareti», ciascuno dei quali ospitava circa 1.500 crani mozzati”.
Notizie, o leggende arrivavano in Europa. Quelle del Prete Gianni, dei re magi che portava ottimismo e speranza nel provvidenziale aiuto che dall’Asia sarebbe potuta arrivare ai fedeli del Cristianesimo. I mercanti europei, poi, speravano in una nuova pax mongolica, che avrebbe aperto di nuovo le – per quei tempi – rapide e sicure rotte carovaniere che dal mar Nero e dall’Armenia attraverso la Persia conducevano all’Asia orientale: quelle che fra Due e Trecento erano state percorse da tanti avventurieri, diplomatici, missionari.
Nel 1405 Tamerlano moriva, inaspettatamente, mentre si apprestava a sferrare un attacco contro la Cina. Aveva ormai denunciato la vecchia consuetudine del pagamento di un tributo, col tempo divenuto una sorta di costosissimo dono periodico, ch’egli usava corrispondere all’imperatore Yung-lo della dinastia Ming, il quale forse, anche ricordando il pericolo corso allora, avrebbe deciso, sia pure alcuni anni più tardi, di conferire un piano organico alla costruzione della Grande Muraglia.
Attorno alla figura mitica di Amir Temur ci sono tante storie e leggende antiche e moderne. Ad esempio pare che il georgiano Josif Vissarionovič Džugašvili abbia assunto il suo nome di battaglia, Stalin («L’Uomo d’Acciaio»), in ricordo di Temur, «L’Uomo di Ferro». Non si tratta di un mito arcaico anche perchè, negli ultimi dieci anni, sui territori dell’ex Unione Sovietica sono state erette oltre 120 statue di Stalin.
IL REGHISTAN DI SAMARCANDA
Il Registan era il cuore dell’antica città di Samarcanda della dinastia Timuride. Il nome significa “Luogo di sabbia” o, in persiano, “deserto”.
Il Registan era una piazza pubblica, dove persone si riunivano per ascoltare i proclami reali, annunciati da squilli di tubi in rame enormi chiamati dzharchis – e un luogo di esecuzioni pubbliche. È incorniciato da tre madrase (scuole islamiche).
Oggi il Reghistan di Samarcanda, ricostruito durante il periodo sovietico, una volta era il più bel monumento dell’Islam (per ciò che ho visto finora io, lo è ancora). È una vasta piazza simmetrica racchiusa dalle tre famose madrase, le università medievali di Tilla-Kari, Sher-Dor e Ulugh Beg.
L’impatto è leggiadro e austero allo stesso tempo. Le facciate sono interrotte dalle filigrane infinitamente complicate di colonne ed archi intagliati, decorati e smaltati. Il pavimento di mattonelle è un mosaico di turchese azzurro, oro, rosa e verde – un fuoco d’artificio congelato per l’eternità.
LA LEGGENDA DELL’ORIGINE DEL VELO
Dopo la sua campagna indiana nel 1399 Tamerlano decise di intraprendere la costruzione di una moschea gigantesca nella sua nuova capitale, Samarcanda, appunto. La moschea è stata costruita usando la ricchezza saccheggiata durante la sua conquista dell’India.
Quando Tamerlano tornò dalla sua campagna militare nel 1404 la moschea era stata quasi completata. Tuttavia non era soddisfatto dell’avanzamento dei lavori, quindi, aveva subito fatto vari cambiamenti, soprattutto per quanto riguarda la cupola maggiore. La storia, dunque, dice che i lavori di costruzione della moschea hanno avuto ritardi.
Burqa
La leggenda dice che la moglie più giovane (e bella) di Tamerlano seguisse di persona i lavori e insisteva perché si facesse in fretta, secondo il desiderio del consorte. L’architetto persiano, al contrario, sembrava mandar avanti i lavori all’infinito per poter rivedere ancora e ancora la donna di cui si era perdutamente innamorato; infine, dinanzi alle sue insistenze, promise sì di concluderli presto, ma chiese un bacio in ricompensa. Dopo molte esitazioni, la principessa gli porse la guancia, ma secondo una versione del racconto ci ripensò all’ultimo istante e interpose la mano tra essa e le labbra dell’innamorato. Comunque, l’ardore del giovane era tale che il segno del bacio rimase sulla guancia. Poiché la leggenda ha anche un significato eziologico (vale a dire ricercare le cause che provocano certi fenomeni), si dice che la principessa coprisse da allora il volto con un velo per celare la prova della sua sia pur lievissima colpa. Da allora in poi Tamerlano ordinò a tutte le donne di coprirsi per pudore e da quel momento nacque l’usanza secondo la quale le donne musulmane debbano portare il velo. Naturalmente poi il sovrano non perdonò la moglie che fu murata viva in una cupola della moschea e da lì maledisse il marito e la sua amata Samarcanda che da quel momento cominciò un ineluttabile declino. E l’architetto? C’è chi dice che distrutto salì sulla torre più alta e si buttasse morendo. Altri sostengono che salì sulla cupola e da lì partì su un tappeto volante per tornare in Persia.
L’OSSERVATORIO ASTRONOMICO DI ULUG BEG
Ulugh Beg era il nipote prediletto da Tamerlano, fu un sovrano dell’Impero timuride, oltre che un importante astronomo e matematico. L’appellativo con cui è comunemente noto non è tanto un nome personale quanto piuttosto un esornativo, traducibile come Grande (Ulu) Signore (Bek).
Il suo vero nome era Mīrzā Mohammed Taragai bin Shāhrukh. Uno degli importanti edifici voluto da Ulugh Beg fu il suo palazzo d’estate, denominato Chilil Sutun (i «Quaranta Pilastri»), corredato da un osservatorio astronomico ch’egli fece costruire fra il 1424 e il 1427 (o, secondo altri, 1429): si trovava al centro di un immenso giardino fuori del perimetro murario cittadino, verso nordest, oltre la collina di Afrasiab.
L’impianto scientifico dell’edificio costituì il modello per gli osservatori altrettanto famosi di Delhi e di Jaipur in India, peraltro seicenteschi.
Pii congiurati che avevano rovesciato il Principe Sapiente (ma inavveduto) definirono il suo osservatorio «ricettacolo mortifero di quaranta spiriti malvagi». Tuttavia esso rimase più o meno intatto e finì con lo scomparire solo con il tempo, l’incuria e i terremoti. Ma nel 1908 Vladimir Vyatkin riuscì a riportare alla luce almeno parte del colossale arco marmoreo dell’astrolabio.
Un altro discendente di Tamerlano, fu Ẓahīr ud-Dīn Muḥammad, più comunemente noto come Bābur, fu un vero e proprio eroe da romanzo, che riuscì – anche con l’aiuto dello shah di Persia, lo sciita Ismail – persino a conquistare nel 1504 Kabul; riprese e riperse quindi la sua città natale, venne cacciato dalla Transoxiana dai nuovi arrivati turcomongoli, gli uzbeki, conquistò nel 1526 Delhi che governò ancora quattro anni prima di abbandonare questo mondo e fondò nel subcontinente indiano la dominazione di quei signori musulmani dell’India che furono detti dagli occidentali: «il Gran Moghul».
SAMARCANDA DOPO LA MORTE NERA
La grande peste di metà secolo, la pandemia nota come «Morte Nera», infierì ferocissima anche in Asia centrale spopolandola, come avrebbe fatto in Europa tra il 1347 e il 1452. Quando il contagio si diffuse nel nostro continente (partendo nel 1347 dal porto di Messina, dov’era sbarcato insieme con un equipaggio e relativo carico – topi compresi – del pregiato grano proveniente dalla colonia genovese di Caffa in Crimea), ma il virus circolava già da una quindicina di anni nel continente asiatico: i primi danni li aveva provocati in Cina verso il 1330, poi aveva aggredito il Kirghizistan e da lì, fra il 1330 e il 1350, il resto dell’Asia centrale da una parte e le città russe da un’altra.
Samarcanda ha continuato a essere una città tajika. Gli insediamenti a sud del Syr Darya vennero indicate complessivamente come uzbechi; mentre quelle rimaste a nord del fiume assunsero la qualifica di kazaki (o cosacchi). Si tratta di etnie del tutto affini, ma destinate a un’eterna inimicizia reciproca che si è mantenuta fino a tempi recenti e che tuttora perdura sotto forma di espressioni folkloriche.
Cosacchi
Cosacco dal turco kazak, «fuggitivo», «dissidente». Originariamente nomadi tartari delle steppe della Russia meridionale; dal XV secolo anche i russi del basso Dnepr e del Don; riuniti sotto i loro atamani, conobbero ampia autonomia fino al XVIII secolo, quando l’autorità zarista li sedentarizzò definitivamente come soldati allevatori-agricoltori, traendone il nerbo delle forze della sua cavalleria.
Nel 1500, la Transoxiana – sempre benedetta dalle abbondanti acque dell’Amu Darya, dalle oasi e dal suo sistema d’irrigazione capillare che si fondava sugli arik, i canali – rimase una regione non solo di contadini ma anche di mercanti e di mercati.Nel 1598, alla morte di Abd-Allah ultimo khan degli Shaibanidi, la nuova dinastia astrakanide, pur continuando ad abbellire la «Perla delle Città», trasferì definitivamente la capitale a Bukhara.
Pelliccia di Astrakan
La pelliccia di Astrakan è fatta con il vello dell’agnellino non ancora nato, che dev’essere strappato dal ventre della madre e scuoiato pochissimo prima del parto se si vogliono mantenere intatti i suoi morbidi, delicatissimi ricci neri o grigio-argento; ha cuoio leggero, sottilissimo, quasi trasparente.
L’antica Sogdiana, la Transoxiana dei greci, il Mawarannahr degli arabi, è stata nei secoli il ponte che ha posto in comunicazione due grandi imperi, il persiano e il cinese, che pur nelle rispettive loro complesse dinamiche e nelle loro ricorrenti crisi sono rimasti potenti fino a tutto il Seicento.
IL GRANDE GIOCO
Sebbene all’inizio del secolo Gran Bretagna e Russia fossero state alleate contro la Francia di Napoleone Bonaparte, tra le due potenze si scatenò la lotta per il controllo degli territori tra i confini asiatici dell’Impero russo e l’India britannica, che fino ai moti indiani del 1857 fece capo alla Compagnia delle Indie orientali e poi appartenne direttamente alla corona britannica.
“Di quella specie di serrata a brutale partita a scacchi giocata tra Inglesi e Russi, noialtri europei sappiamo in genere più o meno quel poco che ci hanno raccontato il Verne del Michele Strogoff e il Kipling di Kim.
Gli inglesi lo chiamarono, sportivamente, il «Grande Gioco»; i russi, con spirito tenebrosamente romantico, il «Torneo delle Ombre»”. Questa storia è una storia di intrighi, inganni, grandi professionalità e ingenui errori.
Oltre al sangue dei soldati e di migliaia di civili i protagonisti di questa storia sono i doppi e i tripli giochi delle spie, dei traditori, dei millantatori.
Peter Hopkirk
A proposito de Il Grande Gioco – I servizi segreti in Asia centrale, libro di Peter Hopkirk: «… Grande affresco storico sul Grande Gioco, come lo chiamò Kipling, che impegnò inglesi e russi, per buona parte dell’Ottocento, in Afghanistan, in Iran e nelle steppe dell’Asia centrale. Mentre il grande impero moscovita scivolava verso i mari caldi inghiottendo ogni giorno, mediamente, 150 chilometri quadrati, la Gran Bretagna cercava di estendere verso nord i suoi possedimenti indiani. Vecchia storia? Acqua passata? Chi darà un’occhiata alla carta geografica constaterà che i grandi attori hanno cambiato volto e nome, ma i territori contesi o discussi sono sempre gli stessi. In queste affascinanti “mille e una notte” della diplomazia imperialista il lettore troverà l’antefatto di molti avvenimenti degli scorsi anni in Afghanistan e in Iran». [SERGIO ROMANO]
“Il lavoro della spia, come quelli del traditore o del traduttore – spiega Franco Cardini – che gli somigliano e si somigliano tra loro, è ambiguo. Così molte notizie, partendo da lontane città o da lunghe carovane d’Asia, arrivavano sì alle cancellerie diplomatiche e dei militari d’Europa, ma accadeva anche che facessero il percorso inverso: e, se una notizia è una merce, ha venditori e compratori intercambiabili. Così gli emiri turcomongoli, i quali in genere erano davvero crudeli e talvolta anche ricchi come si diceva ma non barbari sprovveduti come si pensava, avevano capito abbastanza presto quali pietanze loro destinate stessero bollendo nelle pentole dei governi di Londra e di San Pietroburgo”.
LA CONDANNA DEL COTONE
Fino alla rivoluzione d’Ottobre i turkestani furono sottomessi a una segregazione insieme razziale e religiosa; non si pensò mai, nell’impero, ad accordare ai turkestani lo status di cittadini.
Il concetto russo di dominazione coloniale fu costantemente ispirato a sorveglianza militare e a sfruttamento economico senza alcuna reale e sistematica prospettiva, quanto meno pubblica e pianificata, di progresso civile o socioeconomico dei colonizzati.
Tra il 1861 e il 1864 la guerra civile americana aveva provocato dappertutto una forte crisi delle importazioni di cotone: una materia prima della quale le industrie tessili russe avevano assoluto bisogno. Bisognava dunque andarsela a prendere dove ce n’era in abbondanza.
A Bukhara sarebbe arrivata nel 1888, come a Samarcanda, la ferrovia transcaspiana: ma l’emiro Abdalahad Khan avrebbe ottenuto che la stazione ferroviaria venisse costruita a 15 chilometri di distanza, a Kagan (poi chiamata Nuova Bukhara), in modo che il traffico, i rumori e gli afrori di quella diavoleria moderna non turbassero la vita brutalmente serena della sua corte e del suo harem.
Era duque un destino che la cotivazione del cotone dovesse essere destinata a queste zone, nonostante la grandissima necessità di acqua che questa cultura necessita.
Strumento principale del commercio del cotone e per molti versi della politica prima russa e poi sovietica era quello ferroviario: dopo la ferrovia transcaspiana, che collegava Astrakan a Samarcanda e che giunse in tale città nel 1888 per venir completata nel 1916, quella transiberiana veniva tracciata fra il 1891 e il 1904. Queste vie di collegamento divennero un formidabile vettore per il cotone, preziosa materia prima. Nel 1914 ormai la metà del fabbisogno nazionale russo di cotone era coperto dalla produzione turkestana, come le ferrovie Orenburg – Tashkent e Turkestan – Siberia avrebbero risolto i problemi dello smistamento dei cereali. S’incentivava inoltre la produzione di frutta fresca e secca e, proprio nella regione di Samarcanda, quella vitivinicola.
Nei medesimi anni gli inglesi si arrampicavano oltre la sponda destra dell’Indo, salivano la vallata del Hunza – la leggendaria «Shangri-La» – assoggettando il suo mir e stabilendo lungo le aeree creste montuose tra il Tian Shan e il Karakorum lo spartiacque delle due rispettive aree d’influenza, la russa e la loro.
LA SAMARCANDA RUSSA
La città russa, cioè «occidentale» si sviluppò immediatamente a ovest dell’impianto di quella vecchia, a ridosso della cittadella nella quale Timur aveva il suo palazzo e che venne presto eliminata sia per marcare con chiarezza il segno di una discontinuità sul piano del potere, sia perché il concetto degli urbanisti del governatorato e soprattutto, nei primi anni, del generale von Kaufman fu quello di creare un nuovo baricentro della città che rappresentasse bene l’irruzione dei tempi moderni ma al tempo stesso rispettasse al massimo l’anima della città.
Dopo aver passato l’Hotel Zerafshan vi troverete a destra la cattedrale russo-ortodossa, a lungo utilizzata come caserma dell’Armata rossa nel periodo sovietico ma oggirinnovata e restaurata.
La Samarcanda che sotto molti aspetti possiamo davvero chiamare «di von Kaufman» aveva evidenti tratti di città coloniale, pensata anzitutto e soprattutto per abitanti occidentali che avevano bisogno di buoni servizi pubblici – edifici di governo, università, scuole, ospedali, caserme – e di abitazioni private eleganti e confortevoli.
«La Russia è un paese europeo che pensa sempre all’Asia e un paese asiatico che pensa sempre all’Europa». La differenza tra i due rispettivi modelli di cultura orientalistica è al riguardo fondamentale. È la differenza fra il Kim di Kipling e il Taras Bulba di Gogol; fra le architetture del padiglione reale di Brighton e il Khitai Gorod di Mosca; fra il Tamerlano di Marlowe e il Principe Igor’ di Borodin.
La ferrovia transiberiana venne costruita anche allo scopo di servire da vettore per le emigrazione: i suoi lunghi treni rappresentavano, per tanti diseredati russi, una speranza analoga a quella delle grandi navi a vapore per i diseredati italiani, spagnoli e irlandesi. Nel 1908 gli aspiranti coloni che passavano gli Urali arrivarono a quasi 700 mila. Ma ciò valeva per le aree steppose, dove alla vigilia della prima guerra mondiale i coloni russi erano fra il 20% e il 40% della popolazione: e avevano occupato le terre migliori, cacciandone gli autoctoni.
Alla fine del 1914, a causa delle vittorie russe sul fronte della Galizia, erano affluiti nei campi di concentramento delle steppe e del Turkestan circa 225 mila prigionieri di guerra austroungarici, molti dei quali morirono di fame o di malattie epidemiche.
Se l’immigrazione dei coloni russi e lo sviluppo della nuova agricoltura e delle attività collegate alla modernizzazione tecnologica avevano messo in crisi i contadini meno abbienti spesso riducendoli a indebitarsi e a regredire dalla condizione di piccoli proprietari a quella di fittavoli, era stato possibile invece l’emergere di una borghesia turkestana che si era mostrata ricettiva nei confronti dalle novità anche ideologiche, come quella rappresentata dal movimento «jadidista» che si era avviato fra i tatari del Volga e di Crimea e che mirava a conciliare un’educazione musulmana ripensata con un insegnamento diffuso delle discipline scientifiche in modo da consentire al mondo islamico di accedere agevolmente alla società moderna.
Jadidismo
Lo Jadidismo è una forma di modernismo islamico, che tentava di “aggiornare” tale religione avvicinandola alla scienza e alla tecnica moderna occidentale e per questo esaltava la funzione parzialmente civilizzatrice della colonizzazione russa. Era ben visto dallo zar in quanto avrebbe favorito la modernizzazione dei paesi dell’Asia centrale, mentre non piaceva alle autorità tradizionali di quei paesi, poiché temevano di perdere il proprio potere.
LENIN E I TESORI DELL’ARTE
Con il decreto del 1918 Lenin annunciò che i tesori dell’arte e della cultura del passato non solo non andavano distrutti (e sappiamo che in tutte le rivoluzioni affiorano tentazioni in tal senso), ma dovevano essere preservati, restaurati ed esposti per l’educazione e l’edificazione delle masse; il che implicava che le masse avrebbero dovuto essere educate in modo tale da poter venir «edificate» dall’ammirazione di essi. Questa misura fu la salvezza e il motivo della rinascita di Samarcanda.
Lenin
Il proletariato vittorioso ha ora a sua completa disposizione la terra, che è divenuta patrimonio di tutto il popolo, ed esso saprà organizzare la nuova produzione e il consumo secondo i principi socialisti. Prima tutta l’intelligenza umana, tutto il genio dell’uomo creava soltanto per dare ad alcuni tutti i beni della tecnica e della cultura, e per privare gli altri dell’indispensabile, della istruzione e del .progresso. Ora invece tutti i miracoli della tecnica, tutte le conquiste della cultura diverranno patrimonio di tutto il popolo, e d’ora in poi l’intelletto e il genio umano non saranno più ridotti a mezzi di violenza, a mezzi di sfruttamento. Noi lo sappiamo, e non vale forse la pena di lavorare, di dedicare tutte le proprie forze per realizzare questo grandioso compito storico? E i lavoratori compiranno questo titanico lavoro storico, poiché essi recano in sé le grandi forze latenti della rivoluzione, della rinascita e del rinnovamento.
V. I. LENIN
Opere complete XXVI
settembre 1917 – febbraio 1918
1966 – Editori Riuniti – Roma
Si trattava di un provvedimento amministrativo, ma non per questo meno importante e soprattutto meno applicato. Cardini, perfidamente, sottolinea che: “anche la soppressione dei «borghesi» da parte della Ceka con il classico colpo alla nuca era un provvedimento non penale, bensì amministrativo: «niente di personale»”.
Il restauro di Samarcanda, per quanto possa essere stato realizzato con criteri “sovietici” appare davvero spettacolare. Il visitatore magari è informato, sa che quello che vede non è esattamente quello che c’era prima. Ma l’effetto non è dysneiano, almeno per me, tutt’altro. La differenza con la maggiore sobrietà di Bukara c’è, come del resto la sorpresa. Poi forse dipende anche in quale delle due città si arriva prima: arrivando dal Tagikistan, Samarcanda è davvero una meraviglia.
«Bukhara la Nobile venne sovietizzata più spietatamente di qualsiasi altra città»: «L’intera città vecchia fu rasa al suolo». L’emiro Olim Khan, che aveva sperato in aiuti sostanziosi da parte dell’Inghilterra che sarebbero dovuti arrivargli attraverso l’Afghanistan, fuggì in quel paese.
Legata all’esperienza leninista c’è un’altra straordinaria storia: quella di Enver Pasha. Generale e politico turco. Uno dei capi della rivoluzione dei Giovani Turchi, Ismail Enver ebbe un ruolo di primo piano nell’ultimo periodo dell’Impero ottomano. Fu a favore dell’eliminazione delle popolazioni che non erano di origine turca nel territorio dell’impero ottomano, episodi noti come il genocidio degli armeni, degli assiri e dei greci del Ponto.
Enver Pasha
Ismail Enver, noto anche come Ismail Pascià o Enver Pasha (Istanbul, 22 novembre 1881 – Tagikistan, 4 agosto 1922). C’era un seme «razzistico» nella visione della storia e della realtà etnica del genere umano di questo Giovane Turco: e non a caso Enver sarebbe stato uno dei principali e più diretti responsabili del massacro degli armeni di quegli anni.
Enver fuggì prima a Odessa e quindi a Berlino per finire nel 1920 a Mosca, dove si pose al servizio di Lenin ottenendo la sua fiducia e accettando la sua proposta di guidare una missione in Asia centrale che avrebbe avuto come scopo il consolidamento del potere sovietico nelle aree che già il governo zarista aveva sottomesso e alle quali guardavano ora con rinnovato interesse, dall’India, gli inglesi.
Disertò quindi l’Armata rossa per raggiungere gli insorti musulmani che i sovietici chiamavano basmachi e proclamò il jihad per battere i bolscevichi atei.
L’armata del jihad e quella della rivoluzione si scontrarono tra la primavera e l’estate del 1922, ed Enver Pasha cadde il 4 agosto di quell’anno: si disse guidando una carica suicida contro le mitragliatrici sovietiche, ma in realtà le circostanze della sua fine non furono mai veramente chiarite.
SOVIET E ISLAM
Durante il 1917, nell’impero zarista esistevano circa 20 mila moschee: ma già nel 1929 il loro numero era sceso a circa 4.000 e nel 1935 ne restavano 20 in Kazakhstan, 4 in Turkmenistan e 6 in Uzbekistan.
“La qualifica di «musulmani» che si applica a questi popoli non ha un significato esclusivamente religioso. Riguarda sia la loro origine nazionale, sia alcuni tratti psicologici, culturali e sociali che sono loro propri e che formano un insieme definito, che consente di raggrupparli sotto questa denominazione differenziandoli dagli altri cittadini dell’Urss”.
Si può oggi definire il «musulmano sovietico» – secondo Cardini – un membro di una nazione che, prima della Rivoluzione, apparteneva al mondo dell’Islam, prescindendo dalla sua razza, dalla sua lingua e dalla sua cultura.
“Loro denominatore comune è la sottomissione dei credenti a una legge divina, inoppugnabile e imperativa, codificata nel Corano, nella sunna e negli hadith”: come dire nelle opere e nei pensieri.
Samarcanda, città prevalentemente tajika, finita nell’Uzbekistan nonostante che i tajiki, raggruppati nello stato-nazione vicino, la rivendicassero e tuttora la considerino la loro capitale morale e spirituale.
L’URSS fornì il Tajikistan di una capitale tutta nuova, Dušanbe (letteralmente, «Mercato del Lunedì»), originariamente un piccolo centro commerciale come il suo nome suggerisce, ma ora ampliato e riempito di edifici che avrebbero dovuto mostrare come si concepiva la «città sovietica ideale»: e che del tutto meritatamente ricevette il nome del responsabile del gran pasticcio, venendo denominata Stalinabad.
A Samarcanda, «la repressione dell’Islam e la chiusura delle moschee avevano caratterizzato il periodo dalla fine degli anni Venti alla seconda guerra mondiale». All’indomani della «Grande Guerra Patriottica» (come viene ancora chiamato il secondo conflitto mondiale), non diversamente da quanto stava avvenendo altrove nell’Urss nei confronti delle Chiese cristiane, “si cambiò atteggiamento cercando un compromesso che fu espresso dalla nascita di un «Islam ufficiale» regolato e controllato da un organismo istituzionale che registrava le moschee e i luoghi di culto, sceglieva e stipendiava gli imam, censiva per mahalla e i fedeli, autorizzava preghiere pubbliche, manifestazioni e pellegrinaggi alla volta dei mazar“.
Risultò ovvio che questa tecnica di «assuefazione minimalistica» comportasse una reazione che si concretizzò non in contestazioni o in rivolte, ma nella nascita e nello sviluppo di un «Islam parallelo», cioè «non registrato» dalle autorità della Repubblica sovietica dell’Uzbekistan: che fingevano d’ignorarlo salvo costituirne esse stesse parte in una pratica costante di «doppia verità».
Moschee non registrate fiorirono illegalmente; se le autorità chiudevano una moschea, subito ne veniva aperta un’altra da un’altra parte. Si calcola che nel 1945 l’Uzbekistan avesse seicento moschee non registrate, mentre in Tagikistan c’erano più di cinquecento edifici di culto, serviti da settecento mullah non registrati e frequentati, nei giorni da santificare, da decine di migliaia di fedeli. La gente teneva le madrase in casa, si riuniva per pregare e svolgere le cerimonie religiose di notte, visitava santuari e tombe, e per camuffare le visite le effettuava durante i giorni delle feste comuniste.
Moschee e madrase clandestine nascevano nei cimiteri, dove era possibile occuparsi dei vivi e dei defunti. Mullah e fachiri itineranti portavano i riti religiosi da una regione all’altra, vivendo di donazioni offerte dalle comunità che visitavano. “Si è calcolato che nel 1960 vi fossero circa seimila mullah non registrati nel solo Tagikistan. Anche la valle di Ferghana era un centro di mullah itineranti, che passavano la vita a percorrere in lungo e in largo l’Asia centrale, evitando le autorità. La valle ospitava anche un gran numero di madrase clandestine tenute nelle case. I bambini venivano nel Ferghana da tutta l’Asia centrale per studiare”.
Il buon funzionario comunista che si astiene personalmente da preghiere e cerimonie ma organizza e gestisce con orgoglio la grande festa per la circoncisione del figlio era quotidiano nella Samarcanda sovietica, per quanto le autorità ufficiali e i servizi segreti non ne sapessero nulla, o tacessero, e comunque guardassero da un’altra parte.
Per tutto il lungo viaggio attraverso il comunismo nell’Asia centrale, sono state le confraternite sufi più dei mullah stipendiati dal governo o di quelli clandestini e girovaghi a tener accesa la fiammella della fede.
FONDAMENTALISMO
Il cosiddetto «fondamentalismo», ignoto all’Islam uzbeko e tajiko di un quarto di secolo fa, è oggi presente e diffuso per quanto certamente minoritario tra i fedeli. Noi viaggiando con mezzi popolari e passeggiando per chilometri nelle città non abbiamo mai notato nulla. In passato, a causa di un micidiale equivoco, i fondamentalisti hanno ricevuto anche l’appoggio dei governanti postsovietici, fieri della loro «laicità», che speravano di contrapporre queste nuove forze al prestigio rimasto indiscusso delle comunità dei sufi.
Il fondamentalismo uzbeko, e in genere centroasiatico, nasce dalla figura dello shahid Namangani, compagno di lotta di Osama bin Laden caduto a Kandahar; i suoi seguaci hanno ricevuto la loro formazione, attraverso i «missionari-combattenti» sauditi e yemeniti dai quali si sono sviluppati anche i taliban, dai modelli salafiti e wahhabiti (portatori di un Islam del tutto estraneo e finora sconosciuto all’Asia centrale), nonché mezzi finanziari e armi dalle monarchie del golfo e, fino alla metà degli anni Novanta, dagli Stati Uniti.
LO SCANDALO DEL COTONE
“Il contadino è stato convinto con ogni sorta di vantaggi, ma in realtà egli è obbligato a coltivare cotone: se rifiutasse, infatti, non potrebbe acquistare nulla alle cooperative, né grano né manufatti. Inoltre, il più delle volte gli viene persino indicata una porzione di terra che è libero di coltivare come vuole: a orzo, a riso, a mais oppure ad alberi da frutta”.
Intanto, era già scoppiato l’affaire della tariffa: da circa tre anni si era difatti scoperto che le cifre relative alla produzione cotoniera nell’Uzbekistan erano state per lungo tempo enormemente gonfiate e che – come rivelarono anche alcuni satelliti-spia – vasti «campi di cotone» erano in realtà assolutamente vuoti.
Mentre si stava cercando di arrestare il disastro nel bacino dell’Aral e dei suoi grandi ex immissari, si avviava una lunga, colossale inchiesta durata quasi cinque anni e che rivelò come la rete criminale gestita da Rashidov avesse coinvolto circa 50 mila funzionari pubblici di vario livello a cominciare dall’ex presidente del consiglio dei ministri uzbeko, Narmahkonmadi Khudayberdyev, al quale furono comminati undici anni di carcere per corruzione.
“Lo scandalo del cotone è del 1983, le gravi accuse di corruzione sono state portati da parte di Mosca su tutto l’establishment uzbeko, a seguito di un’indagine federale condotta dai principali investigatori antifrode Gdlian e Ivanov ( “Caso uzbeko”). Risultato: la quasi totalità dell’apparato statale uzbeko è stato sostituito, parte del quale è stato anche imprigionato. Il controllo diretto di Mosca è stato rafforzato (in particolare sotto l’ex capo del KGB Yuri Andropov). Ai leader uzbeki che si sono succeduti l’uno dopo l’altro fino al 1990, Mosca non voleva dare loro il tempo di sviluppare possibili nuove strutture e reti familiari corrotte”.
Boris Eltsin in persona, allora presidente della Repubblica federale socialista sovietica di Russia, fece amnistiare Yuri Churbanov (peraltro genero del segretario generale del PCUS, Leonid Brezhnev) che sarebbe dovuto restare in prigione ancora sei anni. Cardini con ironia mesta scrive: “Qualcuno commentò che il peggior crimine del comunismo era stato lo scomparire esattamente quando la gente cominciava ad aver bisogno di lui. Se non era vera, era ben pensata”.
ISLOM ABDUGʻANIYEVICH KARIMOV
Karimov era per metà uzbeko, da parte di padre, e per metà tagiko, da parte di madre. Crebbe in un orfanotrofio statale sovietico e studiò poi ingegneria meccanica a Tashkent. Già membro del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, presiedette la repubblica dell’Uzbekistan da quando questa si rese indipendente, nel 1991, sino alla propria morte.
Karimov non aveva intenzioni né politicamente, né socioeconomicamente riformiste. Dichiarò subito, nel 1991, che l’Uzbekistan non era maturo per affrontare né la democrazia «all’occidentale», né l’economia di mercato: anzi, non si curò nemmeno di chiarire in che senso e fino a che punto lo scioglimento del Partito Comunista equivalesse alla rinuncia agli obiettivi che per sette decenni gli erano stati propri o al recupero in tutto o in parte di essi, e a quali condizioni.
Dopo un iniziale consenso all’avvio di un sistema pluripartitico, nel 1992 le neonate formazioni politiche vennero messe fuorilegge e i loro leader spinti all’esilio. Da allora Karimov governò con l’appoggio di una nomenklatura che in parte era la vecchia e in parte era stata rinnovata grazie alla cooptazione di personaggi da lui scelti.
Sulla base della sua personale visione interpretativa del fondamentalismo come intrinseco all’Islam e non frutto di un metabolismo ideologico, fece chiudere moschee e madrase, mandò in carcere e in esilio molti mullah, aprì a quanto sembra perfino dei campi di concentramento per sospetti islamisti e soprattutto emanò una legge preventiva tra le più ottusamente repressive di tutto il mondo ex sovietico. Fu questa situazione a determinare i gravi attentati del 16 febbraio 1999 e poi di nuovo nel marzo e nel luglio a Tashkent, fatto è che evidentemente Karimov non si rendeva conto dell’evolversi della storia dell’Islam centroasiatico, ma alla fine è riuscito ha vincere, visto che la sua immagine è ancora quasi venerata nel paese, nonostante gli scandali famigliari e le pratiche di mantenimento del suo potere.
A questo proposito avvolto nel mistero è l’arresto della figlia apparentemente voluto dallo stesso Karimov della quale per molto tempo non si è saputo nulla (se lo si chiede ai taxisti o ai giovani più curiosi, la risposta è sempre il silenzio). Gulnara Karimova è stata una delle persone più ricche e privilegiate nell’Asia centrale post-sovietica fino al suo arresto nel 2014. La sua storia ha sempre assomigliato a un racconto noir: vanità, corruzione, arroganza ed rovina, sullo sfondo una falda famigliare.
OCCHI DA ORIENTALE
Restano i dati di un paese che ha aumentato il suo Prodotto Interno Lordo del 50% in cinque anni e una popolazione giovane, dinamica che cresce dell’8% in 5 anni: rispetto al gerontocomio italiano è tutta un’altra dimensione. Guardare negli occhi a questa gente è stato quasi un dovere. Li mostro a chi avrà avuto la pazienza di arrivare fin qui: non so se aiuta a capire, ma certamente fa crescere la curiosità e la voglia di saperne di più.
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Ottimo testo,completo e avvincente.Samarcanda emerge gloriosa dalla storia grazie alle sue parole, alle sue foto, alle canzoni citate.
Rilevo solo che l’autore di Samarcanda: un sogno color turchese è Franco Cardini,noto professore emerito di storia medievale.
Giusto. Grazie