La Frazione Comunista di Imola 100 anni fa
Il 28 novembre 1920 si tenne al Teatro Comunale di Imola la riunione di 354 delegati socialisti che hanno aderito alla mozione per la fondazione del partito comunista italiano. La riunione passa alla storia come la Frazione comunista di Imola. Due mesi dopo, il 21 gennaio del 1921, a Livorno, è convocato il congresso nazionale del PSI e i risultati della riunione imolese diventeranno concreti in quell’occasione.
Tutto comincia nella casa elegante di Firenze dell’avvocato Mario Strozzi, il 4 novembre del 1917. Una ventina di persone, delegati del partito socialista provenienti da nord e da sud d’Italia, discutono della nuova situazione che si sta creando in italia, a pochi giorni dalla sconfitta di Caporetto e su quello che sta succedendo, approssimativamente, a Pietroburgo. “La presa del palazzo d’Inverno è descritta nei dispacci come una sommossa d’avvinazzati”.
La storia ufficiale del PCI, il monumentale lavoro di Paolo Spriano, descrive in questo modo le posizioni espresse da Bordiga: «Bisogna agire. Il proletariato delle fabbriche è stanco. Ma è armato. Noi dobbiamo agire». Gramsci era dello stesso parere. Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’«Avanti!», l’animatore della corrente dei “comunisti unitari”, insieme alla maggioranza dei presenti si pronunciarono per il mantenimento della vecchia tattica: “Non aderire né sabotare la guerra”, Non puntare sulla rivolta armata dei lavoratori. Una linea, comunque, diversa dai partiti socialisti francese e tedesco, che appoggiavano le ragioni dei loro governi nel conflitto mondiale, posizione che portò alla dissoluzione dell’alleanza tra i partiti socialisti mondiali (nota come al Seconda Internazionale).
IL GOVERNO IN CARICA NEL NOVEMBRE 1920
Il Governo Giolitti V è stato in carica dal 16 giugno 1920 al 26 giugno 1921 per un totale di 375 giorni. Il governo fu battuto alla Camera su due ordini del giorno: uno di Turati-Modigliani sulla politica estera e la questione di Fiume e l’altro relativo alla questione interna. Era composto da: Liberali, Partito Popolare, Partito Socialista Riformista Italiano, Partito Radicale Italiano, Democrazia Sociale, Indipendenti.
FONTE: CAMERA DEI DEPUTATI
IL PARTITO SOCIALISTA
Il PSI era pieno di correnti, circoli, giornali che possiamo raggruppare in tre grandi schieramenti. I riformisti di Turati, i comunisti unitari di Serrati e i massimalisti di Gramsci, Marabini e Bordiga (in tutte le correnti c’erano posizioni diverse spesso antitetiche). La rottura tra riformisti e unitari da una parte e massimalisti dall’altra ha radici lontane. I massimalisti si battono per «il massimo», cioè la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, ritengono che la rivoluzione voglia dire abbattimento violento del regime borghese. Bordiga e Gramsci hanno aderito alla parola d’ordine di Lenin della «trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile». Per molti, amici e nemici, l’opportunità e il rischio della “tempesta rivoluzionaria” è a un passo. Il Partito socialista di quel tempo era di “oltre 200.000 soci”. Sia Bordiga che Gramsci sostenevano spesso che a fare la rivoluzione russa erano bastati 30 mila bolscevichi, perché quel partito era omogeneo, sapeva ciò che voleva.
Di chi è la colpa? Chi se non il Partito socialista aspira in Italia alla guerra civile? Chi se non il Partito socialista crea e vuole questo ambiente di battaglia selvaggia? La battaglia trova necessariamente i suoi combattenti anche dall’altra parte…
Corriere della Sera, 23 novembre 1920
[da Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo -Bompiani, 2018]
A MOSCA
A Mosca, nel marzo 1919, Lenin convoca un congresso che passerà alla storia con il nome di III Internazionale Comunista soprattutto per trovare un sostegno internazionale al governo sovietico e favorire la formazione di partiti comunisti in tutto il mondo e diffondere la pratica rivoluzionaria a livello internazionale. Il socialista Costantino Lazzari dice che l’invito ai socialisti italiani alla conferenza gli è arrivato a febbraio, “attraverso le scarpe di un povero pellegrino che veniva da Mosca”.
Nell’estate successiva si tiene il secondo congresso a cui partecipano diversi italiani, ma i sovietici hanno grande fiducia nel partito socialista italiano e in Serrati: l’uomo che Lenin aveva cominciato ad apprezzare sin dai tempi della guerra, che aveva fondato, nell’ottobre del 1919, «Comunismo», una rivista portabandiera della III Internazionale. Ma il clima con cui vengono accolti gli italiani non ha più le “smancerie” dell’anno prima e si chiarisce subito che al centro del congresso ci sarà l’espulsione dei riformisti dal nuovo partito comunista che dovrà nascere anche in Italia.
Anche i congressi erano un’altra cosa rispetto a quelli che abbiamo visto negli anni più recenti. Infatti si apre a Pietroburgo il 19 luglio e si sposterà quindi a Mosca dove si conclude il 6 agosto. “È il vero congresso di fondazione di quello che tra poco si comincerà a chiamare il Komintern”. Al congresso moscovita vengono approvati 21 punti che rappresentano la bussola per tutti i partiti comunisti che si dovranno organizzare nel mondo. Il punto più contestato in Italia riguarda l’obbligo dei partiti che desiderano appartenere all’Internazionale comunista a “riconoscere la completa rottura con il riformismo e con la politica del «centro» e a propagare questa rottura nella più ampia cerchia comunista”. Spiega Paolo Spriano: “I partiti che vogliono appartenere alla Internazionale comunista debbono cambiare il loro nome. Qualunque partito voglia appartenere all’Internazionale comunista deve portare il nome: partito comunista di… (sezione della III Internazionale)… È necessario che ad ogni semplice lavoratore sia chiara la differenza tra i partiti comunisti e gli antichi partiti ufficiali «socialdemocratici» e «socialisti» che hanno tradita la bandiera della classe operaia”.
È tempo che tutti ci si decida a disarmare e a smobilitare gli animi, a deporre non solo le armi materiali, ma a disarmare e smobilitare gli animi… In alto le mani, tutti!
Filippo Turati, leader socialista,discorso alla Camera, 24 novembre 1920
[da Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo -Bompiani, 2018]
Di fronte a Trockij, Zinov’ev, Bucharin e Lenin – certi vizi italiani sono persistenti – il vicesegretario del PSI, Nicola Bombacci, assicura che un’eventuale scissione porterà comunque al futuro partito comunista l’80% dei voti e delle forze del vecchio partito. Serrati, a sua volta, minimizza i problemi, dicendo che il gruppo di Turati non ha dietro di sé le masse operaie né i militanti.
GRAMSCI
Antonio Gramsci scopre il pensiero di Marx attraverso lo studio della filosofia. Si identificava con tutto ciò che un ideale moderno, laico, un saper vivere «senza religione» offriva ai «giovani pensosi». Non era un tribuno che arringava le folle, aveva una voce così bassa che non si addiceva ai comizi. Io me lo immagino molto simile anche fisicamente ad Enrico Berlinguer. Preferiva ascoltare che non parlare. Era ironico, sarcastico, con il gusto della precisione logica e del lavoro ben fatto, ma con una ferrea volontà e una straordinaria passione politica. Torino, la «Pietrogrado d’Italia». Non è la città più rossa, ma la più industriale e la più operaia d’Italia, “ha un proletariato omogeneo, qualificato professionalmente, agguerrito”. L’intuizione del gruppo organizzato attorno all’«Ordine Nuovo», il giornale da lui fondato da Gramsci, nel “biennio rosso” 1919-1920 è aderire con il linguaggio politico e culturale italiano ai principi dell’Internazionale comunista (contro il provincialismo e gli interessi di bottega locali della maggioranza del partito socialista) e la costruzione dei Consigli di fabbrica ha l’obiettivo di sostituire il proletariato alla borghesia nel governo dell’industria (in frontale polemica con la CGL del tempo) e, ovviamente, dello Stato.
Gramsci era letteralmente esaltato dalla scissione. Per lui era una liberazione dalle vecchie liturgie del partito socialista, voleva portare la forza giovane che si era espressa nelle grandi lotte operaie e la speranza rivoluzionaria che si è manifestata con vigore in una forza politica innovativa e con relazioni internazionali solide e a loro volta nuove e per, quei tempi, sconvolgenti. Ma la grande forza politica e culturale di Gramsci è quella di guardare con interesse al partito popolare come espressione delle masse rurali e semiproletarie e ai gruppi democratici del Mezzogiorno, come espressione della piccola borghesia del sud.
Contro la truce vigliaccheria degli uomini rossi annidati a Palazzo d’Accursio… occhio per occhio, dente per dente… Fuori i barbari!
L’Avvenire d’Italia, quotidiano cattolico,24 novembre 1920
[da Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo -Bompiani, 2018]
BORDIGA
La figura di Amedeo Bordiga, detto Nicola (non si sa bene perchè), è centrale in questa fase della storia della sinistra. Napoletano, pratico. Di lui Gramsci ha detto: «Amedeo, come capacità di lavoro vale almeno tre». Già qualche anno prima aveva polemizzato con il massimo dirigente socialista Angelo Tasca al congresso di Bologna. «La necessità dello studio – aveva esclamato – la proclama un congresso di maestri, non di socialisti». Era ossessionato dalla “purezza” rivoluzionaria. Aveva una posizione giacobino – robespierriana e si batteva contro la corruzione clientelare che nel partito socialista era dilagante. Ma Bordiga non le mandava a dire a nessuno. Celeberrimo è il suo scontro con Lenin (che considerava troppo moderato) quando il leader sovietico sbottò con la sua frase: “L’estremismo: una malattia infantile del comunismo “. Tutto il lavoro di organizzazione dell’assise di Imola – ricorderà Giuseppe Berti, che fu prima marito dell’imolese Maria Baroncini, poi di Baldina Di Vittorio, è stato tra i fondatori del partito comunista americano – fu fatto da Bordiga che, di costituzione robustissima, passava le intere notti a tavolino, stupendo quanti gli stavano intorno per la sua eccezionale resistenza al lavoro e per la sua attività febbrile. Peraltro Bordiga è alla testa di un movimento organizzato che è diffuso su tutto il territorio nazionale.
SERRATI
La convinzione di molti dirigenti unionisti è che quel tempo non sia più propizio alla presa del potere e che quindi convenga restare uniti nel vecchio partito socialista per affrontare la tempesta reazionaria. Infatti Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’«Avanti!» è il principale antagonista di Bordiga e di Gramsci. La sua posizione di capo della corrente dei comunisti unitari è cauta: «La responsabilità della scissura noi non ce l’assumiamo». E’ convinto che la rivoluzione deve venire da sé: per lui i marxisti non hanno il compito di fare la storia, ma di accompagnarla. Questo scatena i massimalisti più contro di lui che contro Turati e i riformisti (tanto che lo stesso Lenin ha più volte manifestato stima e rispetto per il capo dei riformisti). Togliatti ebbe a dire, verso la metà degli anni ’20: “Noi Serrati lo odiavamo”. Serrati stesso, dopo avere aderito al PCI attorno al 1924, ha dichiarato che il suo più grande errore fu resistere all’appello di unità con i massimalisti nel novembre del 1920.
L’Italia ha bisogno di pace per riprendere, per rifarsi, per incamminarsi nelle strade della sua immancabile grandezza. Solo un pazzo o un criminale può pensare a scatenare nuove guerre che non siano imposte da un’improvvisa aggressione.
Benito Mussolini,Il Popolo d’Italia, 13 novembre 1920”
[da Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo -Bompiani, 2018]
A CHE ORA E’ LA RIVOLUZIONE?
Un passaggio fondamentale nella storia del movimenti operaio italiano si realizza a Milano il 9-10 settembre quando sono convocati gli «Stati generali» del proletariato organizzato: il Consiglio generale della Confederazione, quindi il sindacato, con la direzione del partito PSI. Sostanzialmente si vota se fare la rivoluzione trasformando le occupazioni operaie delle fabbriche e delle campagne in assalto allo stato borghese. Quella che Angelo Tasca ha definito fare una «fuga in avanti». La rivoluzione è messa ai voti e finisce in minoranza.
La frazione comunista viene fondata a Milano il 15 ottobre ed è: “Una larga coalizione di correnti”, come la definisce il giornale Il Comunista (che poi avrà proprio a Imola la sua redazione). Lo scopo della riunione di Imola lo sintetizza bene, storicamente, Renato Zangheri. “Ciò che è necessario è fissare il procedimento preciso e non equivoco per attuare la selezione del partito dagli elementi non comunisti”. Il partito – come dice Il Comunista – si estende alla limitazione severa dell’autonomia dei partiti nella Internazionale, al cambiamento del nome (che si vuole chiamare Comunista), al rinnovamento della tattica parlamentare , alla questione sindacale”. La linea che deve essere sancita ad Imola è dunque contro il riformismo e i riformisti sindacali. Non si pensi, come è chiaro, che il sindacato di quegli anni fosse simile a quello di oggi, processi di degenerazione erano piuttosto consueti.
Il manifesto della frazione è firmato da (in ordine alfabetico): Nicola Bombacci, Amedeo Bordiga, Bruno Fortichiari, Antonio Gramsci, Francesco Misiano, Luigi Polano (segretario della federazione giovanile socialista, che nell’estate avevano già deciso di cambiare il nome in Federazione giovanile comunista), Luigi Repossi, Umberto Terracini.
Arriviamo dunque a quei giorni della fine di novembre 1920.
In quei giorni siamo nel fuoco di avvenimenti drammatici. Una settimana prima dell’assise imolese, il 20 novembre, in occasione dell’insediamento del nuovo sindaco, in piazza a Bologna ci sono degli scontri tra polizia, socialisti e fascisti che portano alla deposizione del sindaco socialista Enio Gnudi (che resterà in carica solo mezza giornata), alla morte di 13 persone e al ferimento di almeno 70. L’analisi anche di quei fatti è sconfortante. Massimalisti e comunisti italiani non parlano di pericolo fascista, ma piuttosto di “una delinquenza al servizio della classe dirigente o della casta militare”. Forse il solo dirigente socialista che comprende a cosa si è di fronte è il riformista Emanuele Modigliani che il 15 ottobre in un convegno a Reggio Emilia dice: “Vi sono nella storia delle nazioni delle tragiche ore di regresso e noi andiamo incontro ad una di esse”.
[…] Il nuovo sindaco, se aveva intenzione di parlare alla cittadinanza , non riuscì a dire nemmeno una parola . I fascisti , urlando e imprecando, travolsero i cordoni senza incontrare una vera resistenza . Quanti erano? Difficile dirlo: alcune centinaia, non arrivavano al mezzo migliaio. Trecento, forse. La loro forza stava nelle rivoltelle e nei pugnali che stringevano. Cominciarono a sparare contro il balcone. Numerosi carabinieri e guardie regie, invece di contrastarli, li imitarono. I vetri di palazzo d’Accursio volarono in frantumi. Qualche socialista, dalla piazza, rispose al fuoco, nascosto dietro la fontana del Nettuno. Erano pochi, avevano armi scadenti. I fascisti si acquattarono dietro i vasi che ornavano il ristorante Grande Italia. Spararono non solo contro il municipio e gli avversari, ma anche sulla folla. Alcuni socialisti, tra cui un paio di donne, caddero uccisi. Molti rimasero feriti. Canzio urlò ai suoi: « Correte! Entriamo nel cortile del comune! Lì saremo al sicuro!» . Narda e Cincin, stretti in un abbraccio tremante, gli andarono dietro. Gli altri seguirono. Ciò che accadde poi fu molto confuso. Lo svolgimento dei fatti si sarebbe appreso solo dai giornali del giorno successivo. La folla si era dispersa e correva per uscire dalla piazza, sotto i colpi dei fascisti. Le bande avevano gettato gli strumenti, le Leghe i gonfaloni. Il grosso pensò, come Canzio, che il cortile di palazzo d’Accursio offrisse sicurezza. Ne nacque il più tragico degli equivoci. La Guardia rossa, radunata nella Sala d’Ercole, credette che chi si precipitava nell’edificio fossero i fascisti. Lanciarono alcune bombe a mano. Alla strage in corso aggiunsero la propria, per errore. Altri socialisti morirono sul colpo, o furono raggiunti dalle schegge. Narda, assordata da un’esplosione, vide Canzio immobilizzarsi, avvolto dal fumo. Lo udì mormorare: «Fa freddo sul serio». Si girò. Era insanguinato dal collo all’inguine. Uno squarcio mostrava le budella, che lui cercava di trattenere. «No!» gridò Narda. «No!» Fu afferrata per le spalle, con Cincin. Riconobbe Vittorio Zambelli, che stringeva col braccio libero una pistola. Temette che fosse tra gli aggressori, ma si sbagliava. L’ex ardito sparava sui fascisti e sui gendarmi. «Venite con me, qui non potete fare nulla. È una guerra. Combatterla spetta a chi lo sa fare.» Lasciava i suoi protetti solo per cambiare caricatore. Ne aveva le tasche gonfie. Morirono dieci socialisti, tra cui due donne. Un consigliere comunale appartenente alla minoranza, Giulio Giordani, fu ucciso nella sala consiliare da uno sconosciuto, comparso sulla porta. L’assassino non fu mai identificato. Forse voleva vendicare, a modo suo, le vittime all’esterno. Giordani divenne un martire, degli altri caduti si ignorò il nome. Uno sciopero in loro memoria fu fallimentare. Enio Gnudi fu sindaco solo per mezza giornata. Dopo gli incidenti, il governo commissariò l’amministrazione bolognese. Nominò un nuovo prefetto, Cesare Mori. Sarebbero passati decenni prima che la sinistra si riprendesse il comune.
[da Valerio Evangelisti, Il Sole dell’Avvenire (vol. II: Chi ha del ferro ha del pane) – Mondadori, 2019]
CIRCOLARE
E’ Anselmo Marabini a porsi il problema di vincere il congresso nazionale convocato a Livorno nel gennaio del 1921. Attorno a lui si raccolgono quelli che sono a favore di una terza posizione, che va oltre quella di Gramsci e quella di Bordiga. Lui ad inizio ottobre riunisce a Trieste chi vuole formare una corrente fiancheggiatrice della frazione comunista, soprattutto per non perdere vecchi compagni che “potrebbero sentire ferito il loro sentimento col mutamento del nome del partito”.
Nasce l’idea di una circolare firmata anche da Graziadei, ma ad essa aderiscono anche Repossi e Fortichiari che rappresentano una larga fetta del partito di Milano, il popolarissimo Nicola Bombacci (figura controversa e di grande interesse che poi uscirà dal PCI considerando Bordiga troppo di destra, per finire poi fucilato a Dongo in quanto consigliere politico di Mussolini). Il suo senso è di accettare la tesi di Mosca ma di chiamare la sezione italiana dell’Internazionale con il nome di «Partito socialista comunista d’Italia». Insomma è un’iniziativa politica molto importante che vuole tenere dentro al nuovo partito Serratti e sostanzialmente buttare fuori Turati.
LA FRAZIONE COMUNISTA
Andrea Marabini (figlio di Anselmo, ma su posizioni bordighiane) in una testimonianza del 28 novembre del 1970, descrive il convegno imolese a cui hanno partecipato più di 300 delegai. “Il palco del teatro comunale era addobbato con grandi ritratti di Karl Marx, Lenin, Andrea Costa, Karl Liebknrecht (martire spartachista della tentata rivoluzione tedesca insieme a Rosa Luxemburg) tra festoni e bandiere rosse”.
“I delegati in gran parte erano stati ospitati in case di compagni”. Nella testimonianza di Berti, raccolta da Paolo Spriano, il clima di Imola viene così descritto: il Convegno ha elaborato il nuovo partito comunista. I convenuti – nella loro grande maggioranza – non si sono affatto preoccupati di ottenere ad ogni costo la maggioranza al Congresso, non hanno pensato a perdere tempo nella ricerca di “quelle oneste abilità, consigliate dal compagno Marabini e dai suoi amici di circolare, ma si sono preoccupati invece di votare una chiara mozione di sicuro fondamento su cui erigere il nuovo partito comunista”.
Bordiga per primo non vuole nessuna maggioranza e minaccia di marciare da solo. Lo fa in modo fragoroso contro chi vuole discutere con i centristi: «Afferrato un nodoso bastone, Bordiga vibrò sul tavolo della presidenza una bastonata terribile», per chiudere il dibattito. Scoppia così un grave incidente che può mettere in crisi il convegno. A questo punto interviene il rappresentante dell’Internazionale che si è recato ad Imola, Cain Haller detto Chiarini, “una persona poco abile e poco autorevole che nel momento in cui ci fu una minaccia aperta di rottura fra i comunisti, si affrettò a chiamare nel palco del teatro due bordighiani per intimare loro la linea che l’Internazionale comunista voleva: l’unità della frazione comunista e anche una politica di conquista di tutti gli elementi realmente rivoluzionari del PSI e che la frazione comunista doveva saperlo e tenerne conto”. Non fu tenuto in grande considerazione.
Secondo Spriano è a questo punto che diventa decisiva la funzione di riunificazione che svolge Antonio Gramsci. È lui a impedire col suo intervento che il convegno fallisca il suo obiettivo. “Il resoconto dell’intervento di Gramsci al convegno è molto pallido”. Ammette Spriano. Si capisce ugualmente che la sua voce è un po’ diversa, ma il tono generale è di constatare che chi è venuto a questo convegno lo fa per costituire un partito. Da quello che ho potuto intuire dalla mie poche letture, Gramsci sostiene la segreteria di Bordiga perchè non ci sono alternativa, ma la visione di quella che nel dibattito politico moderna si sarebbe chiamata la “forma partito” era chiara e definita e particolarmente innovativa per l’epoca. Il partito era essenzialmente costituito sul principio del centralismo democratico, veniva esaltato il valore della disciplina e dell’applicazione cosciente delle direttive. Il partito era quindi organizzato come un esercito rivoluzionario. Questo spiega anche perchè, di fronte al trionfo del fascismo, l’unica forza politica organizzata che ha conservato una sua identità anche negli anni della clandestinità sia stato il PCI e che sia stato il partito che ha poi guidato la Resistenza.
Gramsci crede davvero che l’ora della rivoluzione sia prossima? Certamente lui scrive in una lettera – nel 1924 – che “noi restammo una falange d’acciaio che la reazione non riuscì a distruggere”, ma da qui ad affermare che lui fosse persuaso, in quel novembre del 1920 che la rivoluzione fosse davvero ad un passo mi sentirei di escluderlo, visto che ad un certo punto ammette: «Noi nel 1920 non avremmo tenuto il potere se lo avessimo conquistato», che «con un Partito com’era il socialista, con una classe operaia che in generale vedeva tutto roseo e amava le canzoni e le fanfare più dei sacrifici avremmo avuto dei tentativi controrivoluzionari che ci avrebbero spazzato via inesorabilmente».
Imola è stata l’unica città dell’Emilia Romagna che Antonio Gramsci ha visitato in vita sua.
E GLI IMOLESI?
E gli imolesi? Come conferma anche Andrea Bandini nel sua storia dei socialisti imolesi [1879-2002 Orgoglio socialista – Editrice La Mandragola (2011)] I massimalisti, in vista del congresso di Livorno, a livello imolese presero complessivamente il 54% dei consensi e tutta la federazione giovanile socialista aderì alla FGCI. Sono stati circa 600 i soci del nuovo partito quando a livello nazionale, 21 gennaio del 1921, aderirono al PCd’I 54 mila iscritti (anche se solo sulla carta, come ha avuto modo di dire Umberto Terracini). I giovani erano la stragrande maggioranza. Togliatti dice che quell’esperienza è stato il vivaio di elementi rivoluzionari che diedero l’esempio migliore – pagando di persona – alle future generazioni comuniste, ma riconoscendo un ruolo importante ai vecchi militanti.
LIBRI CITATI:
Storia del Partito Comunista Italiano. Vol. I (Da Bordiga a Gramsci) di Paolo Spriano – Einaudi
La frazione comunista al convegno di Imola di Autori Vari – Editori Riuniti (1971)
M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati – Bompiani (2018)
Chi ha del ferro ha del pane. Il sole dell’avvenire. Vol. 2 di Valerio Evangelisti Mondadori (2019)
Complimenti!
Storiografia completa e senza alcun sintomo di enfasi.
Le foto sono stupende.
Bibliografia perfetta.
Mi sia consentito….
Cordialità
Paola Bizzi