Civiltà (di Seble Woldeghiorghis)
Seble Woldeghiorghis
Consulente
La nostra prima volta. A Milano all’assessorato all’angolo tra via Palermo e via Solferino. Di “seconda generazione” con quel suo accento bolognese, che mi mette allegria.Civiltà
Bologna, 2013
La foto. Ero in giro per Bologna era la prima volta che vedevo questi piccoli/grandi segni di civiltà e di speranza.
Questa immagine raffigura un pezzettino di una città a me molto cara: Bologna. La città in cui sono nata, cresciuta e da cui ad un certo punto ho deciso di separarmi, anche se non definitivamente.
Sono nata nel quartiere San Donato, ma la mia crescita è avvenuta alla Bolognina con quella bella piazza dell’Unità che ha accompagnato la mia infanzia e la mia adolescenza. Ricordo i pomeriggi passati a correre con gli amici sotto i portici intorno a casa. La strada e in generale il quartiere, diventavano un’estensione delle mura domestiche. Questo per noi piccoli si traduceva in un’ inestimabile libertà di movimento, mentre per i più grandi voleva dire diventare custodi di un territorio comune di cui tutti potevamo beneficiare.
In alcuni paesi del mondo, in particolare quelli africani, il concetto di quartiere è vissuto in una maniera molto collettiva. In casa si mangia e dorme soltanto, il resto della giornata la si passa fuori. Le strade bolognesi hanno per molto tempo avuto la stessa vocazione. Sarà forse grazie ai loro portici che proteggono, custodiscono, coccolano e in alcuni casi celano.
Non è un caso che proprio a Bologna sia nato un progetto sperimentale che poi ha fatto scuola in altre città. Mi riferisco a “Social Street” nato dall’idea dei residenti di via Fondazza che si sono uniti per riscoprire i valori del vivere comune, socializzare con i vicini, condividere necessità, portare avanti progetti collettivi di interesse comune. Tutto partendo dall’utilizzo delle nuove tecnologie non dimenticando però di far ricadere le idee nella vita reale.
Un’iniziativa veramente originale e importante, ma quando per la prima volta ne ho sentito parlare, mi sono immaginata di doverlo raccontare ad una persona anziana, o anche solo a mia nonna che vive in un piccola città di un paese africano. Entrambi strabuzzerebbero gli occhi all’idea che si debbano sviluppare progetti specifici affinché i cittadini si riapproprino degli spazi pubblici. Curioso che si usi il termine “riappropriarsi” per identificare questa azione. Proprio perché dovrebbe essere nella natura di chi vive in comunità, essere comproprietario degli spazi che lo circondano.
E’ vero anche che se la strada diventa di tutti, allora ognuno di noi ne diventa responsabile. Come in una relazione di coppia.
Nel cartello scattato da Claudio Caprara c’è scritto: “Questa strada è curata e pulita dai suoi abitanti”.
Questa frase racconta proprio di una relazione che si instaura. Gli abitanti appartengono alla strada e a sua volta la strada appartiene agli abitanti. Solo se si crea questo rapporto di fiducia e di impegno si può parlare di bene comune in cui ognuna delle parti restituisce qualcosa all’altra. Gli abitanti la cura, la strada il senso di comunità.
Ecco perché, nonostante la lontananza, non mi staccheró mai dalla mia Bolognina. Perché nelle mie corse lungo i suoi portici, io e lei ci siamo incontrate, abbiamo imparato a conoscerci e a dare qualcosa l’una all’altra. In una sola parola ci siamo amate.
Ecco, per me il bene comune è proprio questo, un atto d’amore.
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